Lo scorso giovedì 23 marzo l’amministratore delegato di TikTok, Shou Zi Chew, si è presentato al Congresso degli Stati Uniti con un plico di appunti sottobraccio. Aveva una missione ben precisa: testimoniare di fronte a decine di membri scettici del Comitato per l’Energia e il Commercio della Camera, con lo scopo di convincerli che la sua piattaforma (di proprietà della compagnia cinese ByteDance) opera in modo responsabile e nei limiti della legge. Il risultato? Mai come ora il divieto di TikTok negli Stati Uniti è vicino.
Chew ha fallito nel tentativo di dimostrare quanto la sua sia un’azienda sicura, trasparente e soprattutto non soggetta a influenze da parte del partito comunista cinese quando si tratta di condivisione dei dati degli utenti. Durante l’udienza il Ceo originario di Singapore non ha fatto ciò che alcuni analisti si sarebbero aspettati, ovvero un’ammissione di colpevolezza (più o meno esplicita) e la proposta di soluzioni alternative. Tradotto: sì, subiamo pressioni e Pechino decide il nostro futuro, è imbarazzante, ma stiamo facendo del nostro meglio per risolvere la questione. Come scritto dal giornalista americano Casey Newton nella newsletter Platformer, l’impressione è che semplicemente non lo potesse dire. In un ambiente già sfiduciato come il Campidoglio, ciò ha alimentato ulteriormente sospetti difficili da ignorare.
Vedendo le immagini dell’udienza – cinque ore di fuoco incrociato con Chew che cercava di ribattere alle accuse dei suoi interlocutori – torna in mente l’immagine di Mark Zuckerberg seduto di fronte alla stessa commissione congressuale nell’aprile del 2018. Lo studente – il primo della classe, brillante e impertinente – convocato nell’ufficio del preside, per rispondere in prima persona sullo scandalo Cambridge Analytica e, più in generale, sulle politiche di gestione dei dati personali che il suo impero Facebook (oggi Meta) aveva adottato fino a quel momento all’insaputa dei propri utenti.
Questo genere di audizioni politiche dovrebbe essere il preludio a una regolamentazione rigorosa, ma negli Stati Uniti ne rappresenta da sempre un sostituto. Il Congresso sbraita contro i rappresentanti delle aziende di social media (oltre a Zuckerberg è successo all’ex direttrice operativa di Facebook Sheryl Sandberg, al Ceo di Google Sundar Pichai e al fondatore di Twitter Jack Dorsey), salvo poi non approvare alcun provvedimento legislativo. All’epoca di Cambridge Analytica, tutto si risolse con un accordo tra Facebook e la Federal Trade Commission per una sanzione da cinque miliardi di dollari. A distanza di anni e dopo dibattiti legislativi a proposito di privacy digitale, il Congresso non ha ancora approvato alcuna protezione significativa che regoli i social media statunitensi o stranieri.
Il caso TikTok, a ogni modo, è profondamente diverso per almeno tre fattori. Prima di tutto perché non è una Big Tech americana. In secondo luogo perché non è solo straniera, ma è cinese, e la disputa sul social network più in voga del momento rappresenta uno dei tanti tasselli nel mosaico geopolitico delle tensioni tra Washington e Pechino. Infine, perché la diffidenza del Congresso nei confronti della piattaforma è bipartisan (riguarda sia repubblicani sia democratici) ed è tutt’altro che ingiustificata: i passi falsi commessi da ByteDance negli ultimi mesi non si contano sulle dita di una mano. Il caso più eclatante risale allo scorso dicembre, quando il sito americano The Verge aveva dimostrato come alcuni dipendenti della società stessero utilizzando strumenti illeciti per accedere ai dati personali di almeno due giornalisti americani. L’obiettivo era controllare se i reporter avessero contattato altri dipendenti del colosso cinese sospettati di aver rivelato informazioni riservate alla stampa.
Sulla scia delle accuse, a febbraio TikTok è stato messo al bando anche dalle istituzioni dell’Unione europea, con il divieto di installazione sugli smartphone dei dipendenti della Commissione e del Consiglio a Bruxelles. Una strada intrapresa anche dal Regno Unito, che all’inizio di marzo ha imposto il divieto su tutti i dispositivi governativi.
Per tutte queste ragioni la politica a stelle e strisce cerca da tempo di costringere ByteDance a un cambio di proprietà dell’applicazione negli States, con un passaggio di testimone a una realtà americana. Un risultato che Chew è determinato a evitare, come dichiarato giovedì ai parlamentari: «la cessione non risolverebbe le preoccupazioni fondamentali che ho sentito, poiché non imporrebbe nuove restrizioni sui flussi di dati o sull’accesso». Secondo il numero uno di TikTok, sono gli Stati Uniti che dovrebbero legiferare e imporre misure di salvaguardia e trasparenza più rigide, in modo da aiutare «tutte le aziende globali che devono affrontare sfide comuni». Insomma, il manager di origine asiatica (ma occidentalissimo per formazione, con studi a Harvard e un trascorso professionale in Goldman Sachs) ha tentato di mediare tra Cina e Usa, tenendo il piede in due scarpe. Con scarsi risultati.
«Chew si è presentato preparato a rispondere alle domande del Congresso», ha fatto sapere TikTok attraverso un comunicato diffuso al termine dell’udienza. «Purtroppo la giornata è stata dominata da un’esibizione politica che non ha riconosciuto le soluzioni reali già in atto […] né ha affrontato in modo produttivo i problemi di sicurezza dei giovani nell’intero settore. Inoltre, i membri della commissione non hanno menzionato i mezzi di sostentamento dei 5 milioni di aziende presenti su TikTok o le implicazioni del Primo Emendamento nel vietare una piattaforma amata da 150 milioni di americani».
Comunque la si pensi a riguardo, la risposta del colosso cinese apre a un’altra considerazione. Nell’ultimo quinquennio la crescita di TikTok in termini di popolarità è stata esponenziale, con numeri che hanno dell’incredibile. Esploso in occidente nel periodo dei lockdown e uscito definitivamente dall’alveo del social per “ragazzini”, ha festeggiato il traguardo di un miliardo di utenti nel settembre 2021, per poi rivelarsi tra i principali protagonisti dell’informazione sul fronte del conflitto in Ucraina. L’anno scorso ha consacrato il suo successo avvicinandosi a Instagram e Facebook per numero di utenti attivi a livello globale, in una scalata che anche negli Stati Uniti sembrava inarrestabile. Almeno fino a settimana scorsa.
Ma il fenomeno TikTok racconta – forse più di ogni altra cosa – un divario generazionale: negli Usa la piattaforma è vista favorevolmente solo dal trentasette percento degli adulti e, a differenza di Instagram e Facebook, non ha fatto breccia in un pubblico più anziano.
In particolare, diversamente da quanto successo tra i politici italiani durante l’ultima campagna elettorale, l’applicazione non ha mai convinto i membri del Congresso americano. Il Washington Post ha riportato che solo un membro della commissione che ha interrogato Chew ha un account TikTok attivo e verificato (altri due sembrano aver cancellato i loro). È facile vietare un’applicazione che non si usa mai, soprattutto quando lo si può fare in nome della sicurezza nazionale.
A inizio marzo il senatore democratico Mark Warner ha presentato il Restrict Act, un disegno di legge che autorizzerebbe – previa indagine – il divieto di tecnologie derivate da Paesi avversari. Almeno 18 senatori di entrambi i partiti e l’amministrazione Biden si sono già espressi a favore del provvedimento, ma una sparuta coalizione di Dem alla Camera si sta opponendo con vigore a questa proposta. Il suo principale rappresentante, Jamaal Bowman, ha tenuto una conferenza stampa con 30 influencer di TikTok che si oppongono al divieto federale. Circondato da cartelli con lo slogan #KeepTikTok, Bowman ha attribuito gran parte delle preoccupazioni sull’app alla xenofobia del Congresso nei confronti della Cina.
Sembra che la battaglia portata avanti da questa minoranza sia l’ultima carta rimasta da giocare per Chew e la sua compagnia. Se si rivelerà un asso o di un due di picche, ce lo potranno dire solo le prossime settimane. Al momento, l’unica certezza è che il futuro di TikTok in Occidente è sempre di più un’incognita.