L’importanza dell’eolico nel lungo percorso della transizione energetica è innegabile. Nel 2022, nonostante i ritardi dei Paesi europei, assieme al solare ha soddisfatto il dodici per cento dell’elettricità globale (dieci per cento nel 2021). Ogni impianto porta con sé qualche criticità, ma negli ultimi mesi quello che sta sollevando più polemiche è il modello offshore.
Perchè? I più convinti detrattori pensano che gli animali, nuotando vicino alle pale posizionate in mare aperto, possano correre dei rischi. Negli ultimi due mesi nove balene si sono spiaggiate sulle coste di New York e del New Jersey e i parlamentari repubblicani (statali e federali) hanno dato la colpa allo sviluppo di un grande parco eolico offshore che sorge nell’area.
Al momento una correlazione però non c’è, mentre le ipotesi più realistiche indicano che a disorientare le balene sia il rumore delle grandi eliche delle navi che transitano, in modo massiccio, lungo quel tratto di costa. Tanto basta però a correre sulle barricate e gridare un secco (e ingiustificato) “no” a questo tipo di soluzione energetica.
Le tecnologie offshore
Ci sono due tipi di parchi eolici marini: quelli ancorati al fondale (bottom fixed) e quelli galleggianti (floats). I primi hanno fondamenta fisse e sono adatti ai fondali bassi o in prossimità della costa. I secondi hanno le pale galleggianti e vengono installati dove i fondali marini sono più profondi e a distanze maggiori dalla costa.
Per ora gli studi hanno rilevato che l’impatto sull’ecosistema marino può concentrarsi nelle fasi di costruzione e installazione: il trasporto del materiale, il suo posizionamento e il traffico delle imbarcazioni. Successivamente, però, la struttura stessa diventa luogo di ripopolamento per flora e fauna marina locale. L’impianto può essere collocato in zone lontane dalle rotte migratorie degli uccelli e dotato di sensori in grado di fermare le pale all’occorrenza, che possono anche essere installati per monitorare eventuali disturbi acustici per pesci e mammiferi.
Sistemi e materiali di ancoraggio sono i più disparati: si può usare il sintetico o il metallico e va considerato che la vita di un parco eolico in mare è di circa venticinque anni. La maggior parte dei materiali è per questo recuperabile in ottica di riuso, mentre quello che si trova in acqua, ed è diventato la casa di flora e fauna, viene lasciato al suo posto.
Secondo studi scientifici condotti negli impianti del Nord Europa, le piattaforme e le rocce intorno alle colonne fanno da substrato a microrganismi, alghe e invertebrati che attirano altre specie, che a loro volta qui trovano rifugio e possono nutrirsi e ripopolarsi, protette dall’interdizione a pesca e navigazione nelle aree del parco eolico.
Il vento che non è altro che una massa d’aria che viene catturata da un aerogeneratore, una versione moderna degli antichi mulini. Le pale si muovono e facendolo innescano il motore posizionato all’interno di un telaio chiamato navicella. Ecco che viene prodotta energia elettrica.
Questo processo è particolarmente efficace in mare perché a largo la forza del vento è maggiore: non ci sono barriere architettoniche e quindi si genera più energia e senza intermittenze. Attraverso specifici elettrodotti e cavi sottomarini, gli impianti offshore conducono l’elettricità generata direttamente alla rete nazionale di distribuzione. Questo modello ha conosciuto una forte impennata negli ultimi vent’anni soprattutto in Cina, negli Stati Uniti e in Germania.
Secondo i dati diffusi da Irena (Agenzia internazionale per le energie rinnovabili), entro il 2030 l’eolico sarà una delle fonti di energia principali, in grado di soddisfare il ventiquattro per cento del fabbisogno energetico a livello globale.
L’energia eolica offshore ha un limitato impatto ambientale e la capacità di sfruttare il vento producendo energia pulita, senza emissioni di gas serra. È più affidabile di altre energie perché il vento in mare è continuo, molto forte e non rischia meno l’intermittenza o la turbolenza delle turbine. Questo vuol dire più energia in meno tempo rispetto a quelli onshore e nearshore. Le pale, inoltre, non hanno alcun impatto visivo o acustico, e non compromettono il regolare svolgimento delle attività umane.
Un parco eolico lontano dalla terraferma è però più distante da raggiungere, vanno calcolati i costi di trasporto dei pezzi di ricambio, il carburante che le navi utilizzano per arrivarci, e che inquina, e gli alti costi di manutenzione e gestione: l’azione delle onde e la forza dei venti oceanici richiedono interventi più frequenti: ecco perché la tecnologia va ottimizzata.
Il nostro Paese vanta 11.700 chilometri di coste e il Piano nazionale energia e clima (Pniec) firmato dal governo nel 2020 si è dato l’obiettivo di produrre novecento megawatt entro il 2030. Una costa così estesa non è automaticamente connessa alla possibilità di installare pale eoliche in modo indiscriminato.
Un esempio virtuoso è Taranto, anche se ci sono voluti quattordici anni. Qui è stato inaugurato il primo impianto offshore del Mediterraneo, il Beleolico. Installato a largo della costa pugliese, ha una potenza di trenta megawatt e si stima riesca a coprire il fabbisogno energetico annuo di circa sessantamila famiglie, eliminando settecentotrentamila tonnellate di anidride carbonica nei venticinque anni di funzionamento del parco.
Questo tipo di tecnologia può essere ulteriormente efficientata, ma l’impegno delle istituzioni nazionali ed europee a incentivare lo sviluppo dell’eolico offshore dev’essere il punto di partenza. Molti dei problemi legati agli urti e all’usura causati dalle onde del mare o dalla salinità delle acque sono stati risolti, l’ostacolo più grande resta l’effettiva volontà di istituzioni e cittadini di imboccare, con convinzione, la strada delle rinnovabili.