Il 2030 è vicinoGli scogli davanti ai propositi manifatturieri green dell’Unione europea

La rivoluzione industriale verde di Bruxelles entrerà nel vivo grazie al Net-Zero Industry Act, che prevede tra le altre cose ambiziosi obiettivi sulla produzione interna di tecnologie necessarie per raggiungere i target climatici. La nostra filiera, però, non è ancora ben sviluppata (soprattutto sulle batterie e l’eolico)

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Si può essere amici e allo stesso tempo rivali? L’esperienza insegna di sì, e anche l’Unione europea lo sta scoprendo. A sue spese, in tutti i sensi. È successo che ad agosto gli Stati Uniti, gli alleati di riferimento, hanno approvato l’Inflation reduction act, una legge da trecentosessantanove miliardi di dollari che ha l’obiettivo di riportare a casa, o nel vicinato, la manifattura di “tecnologie pulite”: pannelli solari, turbine eoliche, batterie per i veicoli elettrici, elettrolizzatori per l’idrogeno verde, macchinari per la cattura del carbonio e altro ancora. I sussidi abbondanti e il quadro regolatorio chiaro dell’Inflation reduction act stanno spingendo molte aziende europee – da Volkswagen a Northvolt, passando per Ecocem – a riorientare gli investimenti verso il Nord America.

La Commissione europea però non vuole perdere la rivoluzione industriale della sostenibilità, e così ieri ha presentato una legge di risposta. Il Net-Zero Industry Act, questo il nome, fissa per il 2030 un obiettivo minimo di produzione interna del quaranta per cento per tutti quei dispositivi utili all’azzeramento netto delle emissioni. Per favorire il raggiungimento del target, Bruxelles chiederà ai Paesi membri di agevolare i progetti strategici attraverso un maggiore sostegno finanziario e una semplificazione dei processi autorizzativi.

La linea del Net-Zero Industry Act è la stessa dell’Inflation reduction: industrializzazione (“verde”) per sostituzione delle importazioni. Il think tank Bruegel ha criticato questo approccio perché rischia di far salire il costo della transizione ecologica. Un conto è la riduzione della dipendenza eccessiva da un solo fornitore – cioè dalla Cina, una rivale sistemica -, un altro è il protezionismo spinto e trasversale.

Ma al di là delle pur fondamentali questioni di carattere economico, ci si domanda soprattutto se l’Unione europea riuscirà a realizzare nel concreto i suoi propositi manifatturieri, considerato che il 2030 è vicino, l’iter del Net-Zero Industry Act è ancora lungo (mentre l’Inflation reduction act è legge già da mesi) e la presenza cinese sul mercato delle tecnologie pulite è fortissima.

Sul solare fotovoltaico, ad esempio, Pechino vale da sola l’ottantacinque per cento della produzione mondiale di celle, il settantaquattro per cento dei moduli e quasi il novantasette per cento dei wafer (delle “fette” di materiale semiconduttore). Sull’eolico offshore, concentra nelle sue mani l’ottantaquattro per cento delle pale delle turbine, il settantadue per cento delle navicelle e il cinquantatré per cento delle torri; sull’eolico onshore, la quota è rispettivamente del sessanta, sessantuno e cinquantaquattro per cento. Il settantasei per cento di tutte le batterie per le auto elettriche si fa in Cina, così come il quaranta per cento degli elettrolizzatori e il trentotto per cento delle pompe di calore.

Le tecnologie per l’energia solare e eolica
«La filiera europea dell’energia eolica non è abbastanza grande per soddisfare l’enorme volume di nuovi parchi eolici che l’Europa vuole», ha spiegato Fred Van Beers, amministratore delegato di Sif, azienda nederlandese di attrezzature per l’eolico in mare. «La necessità di investire in nuova manifattura – continua – è particolarmente sentita per l’eolico offshore. Ci sono specifici colli di bottiglia nella produzione di fondamenta per le turbine offshore. Oggi l’Europa è in grado di produrne circa cinquecento all’anno, ma dovrebbe produrne millecinquecento».

L’obiettivo per il solare, invece, «è possibile», assicura SolarPower Europe, l’associazione europea di categoria, «a seconda di fino a che punto arriverà il quadro di sostegno finanziario». Le speranze europee risiedono in Enel, che sta lavorando all’espansione della fabbrica di dispositivi fotovoltaici di Catania per renderla la più grande d’Europa: entro il 2024 dovrebbe raggiungere una capacità di tre gigawatt all’anno, contro i duecento megawatt attuali. Un investimento da seicento milioni di euro a cui l’Unione europea partecipa con centottantotto milioni e una condizione: che il sessanta per cento della produzione venga destinata al mercato comunitario.

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Dallo stabilimento siciliano usciranno moduli bifacciali, più efficienti di quelli convenzionali, ma bisognerà vedere se Enel saprà reggere la concorrenza di Pechino: i produttori cinesi hanno dalla loro l’economia di scala, i sussidi governativi e l’accesso sicuro alla componentistica. Il gruppo italiano vuole diventare un colosso dei pannelli, ma dipende dalla Cina per i wafer e per le materie di base come il polisilicio.

Tuttavia, assicura che la situazione cambierà dal 2025 grazie a un riorientamento della supply chain. Uno dei massimi produttori globali di polisilicio si trova in realtà proprio in Europa, in Germania: è Wacker Chemie, che però spedisce il suo materiale in Cina per farlo trasformare in celle solari.

Le batterie 
La strada è tutta in salita anche per le batterie. Secondo uno studio di Transport & Environment, al 2027 Bruxelles potrebbe aver allentato la sua subordinazione alla Repubblica popolare per i dispositivi agli ioni di litio. Le aziende cinesi non resteranno a guardare, però. La sola CATL, ad esempio, ha un market share mondiale del trentasette per cento, ricavi da record e piani di espansione in Ungheria.

L’Unione europea può partire da quanto fatto da Northvolt in Svezia e da Umicore in Polonia, ma si ripresenta il tema della competitività: CATL approfitta della posizione dominante per fare sconti sulle proprie batterie e lasciare indietro perfino la concorrenza domestica, indispettendo Xi Jinping. Difficilmente, insomma, tratterà con i guanti le rivali europee.

Per produrre le batterie, poi, servono il litio, il nichel, la grafite il cobalto, ma la raffinazione di tutti questi metalli è controllata dalla Cina, con quote rispettivamente del cinquantotto, trentacinque, settantuno e sessantacinque per cento sul totale mondiale. Attualmente non ci sono raffinerie di litio nell’Unione europea, e Pechino è la fornitrice numero uno dei due terzi delle materie prime considerate critiche da Bruxelles, con picchi del novantatré per cento per il magnesio e del novantotto per cento per le terre rare.

Le novità sulle materie prime critiche 
Il Critical Raw Materials Act, il complemento al Net-Zero Industry Act dedicato ai materiali cruciali per la transizione ecologica, dovrebbe risolvere questa vulnerabilità, garantendo all’Unione la sicurezza degli approvvigionamenti. Entro il 2030, non più del sessantacinque per cento della quantità consumata di un materiale strategico potrà provenire da un singolo paese terzo.

L’Unione dovrà estrarre internamente il dieci per cento dei minerali che utilizzerà, raffinare il quaranta per cento e riciclare il quindici per cento. Le quantità rimanenti verranno colmate dai like-minded partners, Nazioni politicamente affini e dunque affidabili, come il Canada, l’Australia e gli Stati Uniti.

La Commissione insiste molto sul recupero dei metalli dai dispositivi esausti per ridurre al minimo l’apertura di miniere. A questo proposito, uno studio di Cassa depositi e prestiti prevede che al 2040 il riciclo consentirà di soddisfare oltre la metà del fabbisogno europeo di litio e cobalto per la mobilità elettrica.

«Il riciclo da sé non è, tuttavia, sufficiente ad assicurare l’autonomia strategica della Ue», si precisa nel documento: è necessario «il rilancio delle attività di estrazione mineraria in chiave sostenibile sul territorio comunitario». Se una miniera possa davvero considerarsi sostenibile sotto il profilo socio-ambientale, però, è tutto da vedere. Non la pensavano così i portoghesi e i tedeschi che si opponevano all’estrazione del litio.