Car* collegh*L’inclusività a tutti i costi partorisce un’antilingua di frasi barocche e prolisse

Le linee guida dei Musei Reali di Torino, invece di disincagliare il linguaggio dall’«eccesso di burocratizzazione», lo complicano e appesantiscono, o hanno effetti surreali, come la «stanza per chi allatta al seno». E chi sarà mai quest* «chi»?

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È bastato che al Concertone del Primo maggio Ambra Angiolini dicesse una cosa sensata, tutto sommato innocua, per scatenare le reprimende delle maestrine dell’ortodossia politically correct (ne ha scritto Guia Soncini su Linkiesta del 3 maggio). «Avvocata, ingegnera, architetta», ha osato insinuare l’incauta, «tutte queste vocali in fondo alle parole […] ci fanno perdere di vista i fatti, e i fatti sono che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto in meno di un uomo che copre la stessa posizione» (corsivi miei).

Probabilmente la temeraria non sapeva – neppure le sue intemerate censore (plurale di censora) sapevano – che al fondo della sua arringa stava un’antichissima auctoritas, quella di un certo Misone, annoverato da Diogene Laerzio tra i Sette Sapienti dell’antica Grecia, noto per questa unica sentenza: «Non bisogna cercare le cose (i fatti: prágmata) a partire dalle parole (lógoi), bensì le parole a partire dalle cose: infatti, le cose non si producono per le parole, bensì le parole per le cose».

In effetti, chi si ricorda più di Misone – oltretutto un maschio e magari un maschilista che prima o poi andrà inchiodato alle sue imprescrittibili nefandezze. Non lo ricorda, in tutta evidenza, neppure il manipolo di venti intrepidi esperti (storici dell’arte, archeologi, architetti, archivisti, educatori museali, addetti all’accoglienza, impiegati amministrativi stretti a coorte intorno a una «linguista tutor»), messo insieme dai Musei Reali di Torino per produrre 64 pagine di “Linee guida per una comunicazione rispettosa delle differenze di genere al museo”.

Il volumetto, pubblicato da Editris 2000, è dichiaratamente destinato a un uso interno, con riguardo sia agli «atti amministrativi (denominazione dei ruoli, redazione di incarichi, lettere, circolari, etc.)», sia alla «comunicazione scientifica e divulgativa (sito web, newsletter, social media, testi in mostra…)». Non nasconde tuttavia l’ambizione di proporsi come modello in materia, sulla scia di analoghe iniziative sviluppate negli ultimi anni da diverse istituzioni culturali pubbliche in Italia.

In un’ampia sezione introduttiva che occupa quasi metà dell’opera la questione è impostata sul piano teorico con alati riferimenti alla Costituzione, ai gender studies e alla linguistica di genere, al movimento Black lives matter e alle Guerrilla Girls, nonché alla sacrosanta valorizzazione delle differenze. Quindi si passa alla parte pratica, un «prontuario con esempi e glossari» nell’ottica di «rendere il linguaggio più trasparente, disincagliandolo da un eccesso di burocratizzazione, così da evitare quell’effetto che Italo Calvino ben mostrava nel suo celebre racconto intitolato, emblematicamente, «L’antilingua»». Che poi non era un racconto, bensì un articolo uscito sul Giorno il 3 febbraio 1965, ma vabbè.

Vediamo piuttosto gli esempi. Trasparenza, si diceva? «A seconda della identità di genere cui ci si riferisce, si potrà scegliere tra: il ragazzo, la ragazza, lə ragazzə (o u ragazzu); il visitatore, la visitatrice, lə visitatorə: il custode, la custode, lə custode». Nel caso di una lettera ai «Cari colleghi» si potrà scegliere tra Car* collegh* (per indicare una o più persone senza esplicitarne il genere), Carə collegə (per indicare una persona senza esplicitarne il genere), Carз collegз (per indicare una pluralità di persone di diversi generi). Trasparente, vero? Ma fin qui è l’andazzo generale, nihil novi (ahinoi).

Scendiamo nello specifico. Nel ventaglio di eventualità comunicative dispiegato dalle «Linee guida» troviamo suggerimenti di correzioni piane, del tutto indolori («i visitatori» diventano «il pubblico», «le immagini dei bambini» diventano «i ritratti infantili», l’avvertenza «i visitatori devono prenotare il giorno prima» diventa «la visita deve essere prenotata il giorno prima»), altri del tutto opportuni (da «il direttore» a «la direttrice», da «il presidente» a «la presidente»), altri ancora un po’ risibili ma il riso fa bene (gli «uomini della Preistoria» si mimetizzano negli «esseri umani preistorici», «l’uomo della strada» si emenda in «la gente comune», l’ammonimento «a passo d’uomo» si demaschilizza in «a velocità ridotta», gli «uomini d’affari» si neutralizzano in «imprenditori e imprenditrici» – che non sono esattamente la stessa cosa ma pazienza).

Il buon paladino del linguaggio politicamente corretto non deve mai abbassare la guardia, deve essere reattivo, saper lavorare d’ingegno: perché l’insidia si nasconde ovunque. Anche in un subdolo «ciascuno», come nell’auspicio che «l’incontro con l’arte possa diventare per ciascuno una preziosa occasione di crescita», argutamente ripulito in questi termini: «L’incontro con l’arte possa diventare ogni volta una preziosa occasione di crescita». Ecco. Ma non sempre i difensori hanno la meglio, perché bisogna riconoscere che la pugna è ardua: tanto che, nell’esempio di un disciplinare di gara per prestazioni tecniche, «il progettista incaricato» si trasforma chissà perché nell’«operatore economico incaricato», ri-capitombolando così nel discriminatorio genere (grammaticale) maschile. Oibò, nell’intento di salvare in corner il difensore ha fatto autogol.

Ben presto, comunque, la via dell’inclusione si rivela accidentata: già a partire da un normale «bando per archeologi» che si dilunga in «bando per persone con laurea in Archeologia», mentre «i pittori» si reduplicano in «le pittrici e i pittori» (e quindi «gli scultori Camille Claudel e Auguste Rodin» saranno «la scultrice Camille Claudel e lo scultore Auguste Rodin»), e sulla stessa linea «i bambini» si ritrovano geminati in «bambini e bambine», il «coordinatore della sicurezza» si scompone in «coordinatrice o coordinatore della sicurezza», «gli anziani» si astrattizzano in «soggetti anziani» e «il richiedente» si smaterializza in «soggetto richiedente».

Le frasi si fanno prolisse, faticose, pesantemente barocche e mestamente burocratiche (ma non si trattava di disincagliare il linguaggio dall’«eccesso di burocratizzazione»?); si complicano, si intortigliano, si allontanano vieppiù dal concreto. «I docenti e gli studenti» sono rigenerati in un pedantesco «il personale docente e il corpo studentesco», «l’Ufficio si compone di restauratori, conservatori e assistenti tecnici» viene ripulito in «l’Ufficio si compone di personale addetto al restauro conservativo e all’assistenza tecnica», «un fotografo di comprovata esperienza» si purga dal suo peccato originale dissimulandosi come «persona di comprovata esperienza nell’ambito della fotografia», la frase «gli educatori museali accompagnano gli alunni, le famiglie e i visitatori adulti» si gonfia a rischio di scoppiare in «le educatrici e gli educatori museali accompagnano le classi, le famiglie e coloro che partecipano alle attività proposte». Il barocco inclina al rococò. E l’antilingua fa la ola.

Seriamente: è davvero immaginabile una visitatrice che, entrata nei Musei Reali per imparare e per godere dei loro straordinari tesori (fanno parte del sistema il Palazzo con l’Armeria Reale e la Cappella della Sindone, la Biblioteca Reale, la Galleria Sabauda, il Museo di Antichità e i Giardini Reali), possa sentirsi discriminata perché in un frettoloso cartello si menzionano genericamente «i visitatori»? O una bambina che metta il broncio perché non viene distinta dai «bambini»? Non stiamo parlando, beninteso, del modo in cui vengono presentati i pezzi delle collezioni, che giustamente deve essere rispettoso delle diverse sensibilità, ma di semplici, succinte consuetudini linguistiche in normali comunicazioni di servizio. Parole, non fatti (povero Misone…). Parole che, almeno in questi casi, non implicano alcun fatto lesivo per chicchessia.

Era invece un fatto che «le mamme che allattano sono da sempre benvenute». Lo sono sempre, ci mancherebbe, ma d’ora in avanti non saranno più le sole: «le mamme e i papà che devono allattare, così come, in generale, chi ha con sé bebè a cui badare, sono da sempre persone benvenute». Hai visto mai che un papà o una tata si sentissero discriminat* perché tagliat* fuori, o una donna conculcata perché sempre a lei sola è attribuita l’incombenza. Ma si noti bene: «C’è anche una stanza più riservata per chi allatta al seno». E chi sarà mai quest* «chi»? Visto che le balie sono ormai estinte, forse si poteva arrischiare il sostantivo «mamme».

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