C’è una foto, ha giurato Victor Osimhen: una foto del momento prima che il Napoli cominciasse a vincere, e a risultare ingiocabile. «Era estate e dopo un allenamento abbastanza duro parlavo con Anguissa – ha raccontato l’attaccante nigeriano al Corriere della Sera – e gli dissi: Frank, sai che la nostra squadra è forte e possiamo provare a vincerlo veramente lo scudetto». E a quel punto era arrivato Luciano Spalletti che «mi guarda e dice: se i tuoi compagni si convincono, come lo sei tu, sì che possiamo provarci».
Quanto è lontana quella squadra contestata, fischiata al ritiro a Dimaro, accusata di una stagione fallimentare – terzo posto, qualificazione in Champions League – dalla squadra osannata, riprodotta, cartonata, imbalsamata, plastificata in ogni angolo di una città che da tre mesi si stava terziando il titolo, da almeno due settimane scendeva in strada per uno Scudetto ancora non ufficiale, una festa strozzata come un coito interrotto, qualcosa che autorità e tifosi e osservatori avevano visto avvicinarsi come un’Apocalisse a metà tra il Carnevale di Rio e il Giorno del Giudizio.
Se già era difficile a Napoli credere nella vittoria, era impossibile pensarla a cinque giornate dalla fine, con diciotto punti sulla seconda, nessun testa a testa, nessun’altra pretendente credibile. Un dominio assoluto.
Eppure appena la scorsa estate il Napoli ha vissuto una piccola rivoluzione: via Insigne, Kalidou Koulibaly e Dries Mertens, dentro una manciata di calciatori sconosciuti, sporchi e cattivi, senza alcun timore reverenziale verso la Serie A, alcuni rappresentanti di una geografia del calcio esotica e in espansione, che non parlano italiano e figuriamoci il napoletano. Però affamati, famelici. La società era stata criticata anche per questo: per Kvicha Kvaratskhelia, per Kim Min-Jae insomma. E invece.
Il Napoli è tornato a vincere la Serie A quando è tornato a cercare talenti e a valorizzare il suo patrimonio tecnico. Spalletti ha riscoperto e coltivato calciatori affossati dalla precedente gestione tecnica, quella di Gennaro Gattuso, come Amir Rrahmani e Stanislav Lobotka. Ha raffinato Osimhen. Ha scelto Giovanni Di Lorenzo capitano. Uomini forti, destini forti. Altro merito di DeLa è stato aver preso un allenatore capace, di grande esperienza. «Spalletti, la Panda te la restituiamo … bast’ ca te ne vaje!», lo striscione apparso all’esterno dello stadio a maggio 2022 dopo il furto dell’auto, forse cavallo di ritorno o forse sfottò, di certo contestazione. Striscioni contro Kim erano apparsi perfino prima che il difensore giocasse anche un solo minuto.
«Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema, tutti!», Nanni Moretti in Sogni d’oro. «Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco!». E invece attorno al Napoli era una polveriera.
E il club era considerato un eterno incompiuto, mancava la vittoria importante. Il “papponismo” aveva unito una città più divisa di quanto voglia lo stereotipo, “Ggiùnapoli” e “Ssùnapoli”, rendez-vous tra classi popolari e borghesia, ultras e imprenditori.
L’estate scorsa era esploso il movimento degli A16: quelli che invitavano il presidente a prendere l’autostrada per la Puglia, a lasciare e occuparsi della Bari. Alcuni invocavano un fantomatico sceicco. Lo stesso presidente che in quasi vent’anni ha confezionato sparate fuori dal mondo, ragazze pon pon e magliette inguardabili – alcune così trash da risultare indimenticabili o introvabili –, che ha fallito nei propositi di creare una cantera napoletana – la scugnizzerìa – o uno stadio di proprietà, che ha bruciato Carlo Ancelotti, nientedimeno, e che non ha brillato nei rapporti con gli ultras – alla vigilia dei quarti di Champions con il Milan è passato dall’invocare il modello Thatcher alle foto con quelli non tesserati accolti infine in tribuna. La contestazione si è squagliata col Maradona sold out perfino per Udinese-Napoli in streaming e con una città invasa dai festoni.
Della festa si era cominciato a parlare sottovoce con il Mondiale vinto dall’Argentina in Qatar – si ricordava la coincidenza con quello del 1986 e il primo Scudetto del Napoli nel 1987, entrambi firmati Diego Armando Maradona. Era ancora febbraio quando la prima decorazione con il terzo tricolore è apparsa ai Quartieri Spagnoli: questa squadra è stata anche la fine della scaramanzia nella città della scaramanzia che da allora non ha smesso di pitturarsi, addobbarsi, appestarsi, riempirsi in ogni angolo e Rione di gadget e ornamenti non senza vette di grottesco o peggio – su tutte il ragazzo di pelle nera, con maglia di Osimhen, messo a favore di passanti e turisti a distribuire volantini promozionali in mezzo al mercato della Pignasecca.
Napoli ha interpretato Napoli: come al comico cui si chiede «facce ride», ha vestito i panni della città che vive per il calcio, che non passa giorno senza piangere Maradona, che non è un problema vivere per giorni con ordinanze e atmosfere da Capodanno permanente se si tratta di pallone. Le autorità non sono riuscite con ore di riunioni e vertici a impedire che tutto si bloccasse, che i napoletani non tifosi del Napoli – esistono! – venissero travolti dal caos di divieti e rinvii e dall’entusiasmo della maggioranza. Hanno fallito. Chi si è mosso con i mezzi pubblici ha vissuto vere e proprie ore di panico e terrore. Il copione si ripeterà con ogni probabilità alle prossime puntate, all’ultima di campionato in casa del 4 giugno, quasi sicuramente. La napoletanità è degenerata puntualmente in napoletaneria. L’unica programmazione riuscita è stata quella che ha riguardato la squadra.
Niente genio e sregolatezza, nessuno ad aspettare la ciorta. È stata lavoro, impermeabilità a un ambiente carnale e spesso tossico, l’ossessione tesa al miglioramento raccontata da Kvara, l’esaltazione delle seconde linee da parte dell’allenatore. Di Napoli la squadra ha preso l’entusiasmo, il furore, l’orgoglio. E ci credeva, era l’unica. Non l’hanno vista arrivare.
A inizio stagione i media specializzati a malapena la davano in corsa per la Champions. E invece allo Scudetto del bilancio – altra maniera di contestare la società: come se avere i conti a posto sia un problema – si è aggiunto lo Scudetto sul campo. È stato un piccolo capolavoro in una terra dove per riuscire sembra sia necessario emigrare con Pino Daniele in sottofondo come Fabietto in “È stata la mano di Dio” – secondo Istat dal 2012 al 2021 il Sud Italia ha perso oltre 525mila residenti, soprattutto ragazzi e giovani, diciassettemila partenze nel 2021 soltanto da Napoli. È stato l’esempio o, perché no, lo specchio, più mediatico di una città di persone e realtà operose, con eccellenze internazionali nella gastronomia, nella navigazione, nell’industria, nell’utilities, nel commercio, nella farmaceutica, sempre soffocate dal folklore e dallo stereotipo.