La movimentista Elly Schlein deve ricordarsi che adesso guida un partito politico. Anzi, il suo mandato è quello di resuscitarlo, non di appiattirsi né tantomeno di sciogliersi nei movimenti. Perché diciamo questo? Perché, del tutto opportunamente, domani la segretaria del Partito democratico sarà a Bologna per la prima delle tre manifestazioni di Cgil Cisl e Uil contro il decreto lavoro e più in generale contro la (non) politica economica del governo Meloni. Poi ce ne sarà un’altra sabato 13 a Milano e una terza sabato 20 a Napoli.
La Cgil non esclude lo sciopero generale. Un crescendo per disegnare un maggio italiano che ovviamente non somiglierà per niente alla protesta francese, e per fortuna. Non mancano gli esagitati che twittano «oggi in Francia domani in Italia», incuranti della piega violenta che ha preso la protesta contro Emmanuel Macron e la sua legge che innalza l’età pensionabile di due anni, come quasi sempre avviene in un Paese storicamente duro come la Francia ove reazione e rivoluzione sono sempre in agguato. Protesta che da sindacale è diventata presto un’altra cosa, un grande ribollire umano dove politica e irrazionalità si mescolano nell’estetica dei cassonetti bruciati e nel mito dei casseurs all’ombra di un estremismo politico che fa da contraltare alla mai sopita tentazione reazionaria dei francesi: ormai di lotta sindacale a Parigi c’è ben poco, è tutto un agitarsi incontrollabile. Mentre da noi è stata sempre un’altra storia.
È la democrazia dei partiti, bene o male. C’è un governo e c’è un’opposizione. Poi ci sono i movimenti, che sono un altra cosa. Per questo sarebbe un errore pensare che i sindacati debbano supplire all’inerzia del Pd, inerzia dovuta a molti fattori a cominciare dalla lunga anchilosi del Pd iniziata con la sconfitta di Matteo Renzi al referendum, poi con la reggenza di Maurizio Martina, quindi con segreteria di Nicola Zingaretti e culminata con quella di Enrico Letta.
Ora, Schlein sarà a Bologna per dare il segnale che il Pd sta dentro la protesta. Legittimo, coerente. Con il rischio però, se il Pd fa solo questo, di dare la forte sensazione di delegare al sindacato una lotta che è tutta politica, un errore strategico in cui si confondono i ruoli con il rischio di una vera e propria deriva ideologica (scommettere sul vecchio pansindacalismo nipotino di George Sorel) e di un affastellamento di slogan in grado di provocare magari un bel casino “francese” e null’altro.
La piazza sindacale è un conto ma la questione vera è la seguente: perché il Pd non organizza una propria manifestazione politica (o meglio, più manifestazioni) contro la politica generale di questo governo? Cosa impedisce a Elly Schlein di andare su un palco in una piazza di Roma, di Milano, di Palermo? È andata ovunque, la segretaria, ma sempre a manifestazioni di altri. Su questa o quella questione. E tuttavia un partito è tale se riesce a fare una sintesi positiva di una serie di motivazioni critiche che va incanalato, va fatto diventare politica. Altro che patto con Landini.
Peraltro dal punto di vista politico uno spazio di opposizione a un governo che sta suonando il piffero della mancetta nera esiste e in più in campo c’è, se non solamente, soprattutto il Pd, visto che Giuseppe Conte non ha intenzione di spendersi in un movimento di protesta contro il governo Meloni per la buona ragione che da questo può sempre rosicchiare qualche briciola di potere pur mantenendo Schlein sotto pressione con le chiacchiere e apparendo ormai chiaro che nel dibattito pubblico il Movimento 5 stelle dell’avvocato ha ormai poco da dire.
Il problema è che malgrado il buon impatto della nuova leader con l’opinione pubblica – al netto dell’armocromia – il Pd non riesce a rimettersi in piedi, a elaborare un programma, a costruire rapporti. Nemmeno a discutere prima che i fatti avvengono: e così si trova a votare una mozione di Nicola Fratoianni contro gli accordi con la Libia stipulati dal governo Gentiloni beccandosi platealmente il dissenso di un ex ministro come Enzo Amendola e di esponenti come Lia Quartapelle e Marianna Madia.
È un partito che trasmette incertezza, permanentemente impelagato nelle vicende degli assetti interni o nelle polemiche pseudo-identitarie (vedi la penosa questione del presunto cambio del nome del gruppo parlamentare a Bruxelles dove i socialisti europei pongono l’esigenza di togliere l’aggettivo «democratici» e lasciare solo «socialisti», un partito che non riesce a dettare la famosa agenda. Nei sondaggi il Pd è arrivato a superare il 20 per cento e questo è un fatto. Ma viene voglia di riprendere la nota battuta di Palmiro Togliatti che a Giancarlo Pajetta che gli dava notizia dell’occupazione della Prefettura milanese rispose: «Bravo, e ora che te ne fai?».