Il 25 aprile del 2023 in Italia sono successe due cose importanti. Una è che Nanni Moretti ha presentato il suo film nei cinema bolognesi – tenete questo dettaglio a mente, poi ci torniamo. L’altra è che Vogue Italia ha deciso, in omaggio all’anniversario della Liberazione di anticipare sul suo sito uno degli articoli che saranno sul numero che uscirà in edicola il 3 maggio: l’intervista a Elly Schlein.
Sono passati due giorni (i tempi di reazione dell’internet sono fermi allo sviluppo e stampa), e improvvisamente ieri tutti parlavano di due righe in mezzo a quest’intervista, due righe in cui Elly Schlein dice: «In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio». E qui, mi spiace per voialtri che volete leggere di quell’avvincentissimo argomento che è l’armocromia, possiamo finalmente parlare del vero tema, che è Bologna.
Bolognese è la direttrice di Vogue, Francesca Ragazzi. Bolognese è l’intervistatore, che dà del tu alla Schlein come fossero vecchi amici benché non si conoscessero (il guaio di Bologna è che ci conosciamo anche se non ci conosciamo). Bolognese è Elly Schlein, sebbene a vedere come si veste pare che la sua parte svizzera prevalga e una delle ragioni per cui nessuno mi nomina direttrice di Vogue è che a me non sarebbe mai venuto in mente che il non stile della Schlein valesse le pagine di Vogue.
Bolognese è questa tal Chicchio, che ieri ha risposto a una giornalista che non poteva dare ulteriori interviste, ma «bella palette» (detto dei colori indossati da colei che le stava richiedendo l’intervista; non è dato sapere se ella ne sia stata lusingata; forse no, giacché pare che la Chicchio non sia molto stimata dalle altre armocromiste, e fatico a interpretare questa diceria: in un mondo rovinato dagli stylist, non essere stimata dalle armocromiste è un punto di merito?).
Immagino che la ragione per cui la Chicchio ha negato l’intervista alla tapina di cui ha però lodato la palette sia la stessa per cui io ho ricevuto segnali contraddittori dal fotografo che ha scattato le foto della Schlein – sì ti parlo alle cinque, no non ti parlo se prima non passi per la redazione e chiarisci che taglio vuoi dare all’articolo, no è meglio che non ti parli comunque – e cioè: la leggendaria discrezione Condé Nast.
Anna Wintour avrà sgridato la Chicchio per aver detto che la tinta del trench della Schlein è «glauco» («da molti definita salvia»: da molti che parlano italiano, sì)? O per aver detto a Repubblica che prende trecento euro l’ora? (Capolavoro: far irritare la sinistra poveraccista per cui la moda non è pil ma pensiero debole, e far trasecolare la sinistra fighetta, «ma veramente paga una specialista per poi essere una di cui tutti sospiriamo che si veste proprio come una svizzera?»).
Vogue America da sempre pubblica le donne della politica, da Hillary Clinton a Michelle Obama, da Kamala Harris a Laura Bush. Solo che, tra il servizio di Elly Schlein che evidentemente teme d’apparire frivola, e quelli delle donne d’un paese che ha le idee chiare sull’importanza dell’immagine, c’è tutta la differenza che passa tra professioniste per le quali i vestiti sono un linguaggio, e dilettanti che si fanno truffare dall’armocromia.
Vogue non fa miracoli, e non avrebbe certo, a fine servizio fotografico, trasformato Elly Schlein – una che le idee le espone male e i vestiti li porta peggio – in Alexandria Ocasio-Cortez: una che trasforma i tutorial di trucco in comizi politici, che rende fotogeniche le più da liceali delle idee, e che sa avvolgersi il culo in un vestito con lo slogan giusto e far diventare un abito da sera non più solo un involucro ma la rivoluzione che il secolo di Instagram si può permettere.
Vogue non fa miracoli, e infatti dopo essere comparse su quelle pagine si resta come si è: Kamala Harris stilosa, e Hillary Clinton malvestita. Però nel tempo che passi su quelle pagine hai un senso: il vestito da sposa di Dior indossato da Melania Trump venne scelto assieme ad André Leon Talley, all’epoca braccio destro della Wintour, in quello che divenne l’articolo di copertina. Elly Schlein – identitariamente tentennante: essere quella che si fa fotografare da Vogue o essere quella che non bada a queste sciocchezze? – finisce per non essere nulla.
Finisce per rifiutare il guardaroba scelto dai professionisti del giornale e arrivare sul set fotografico coi suoi vestiti, e farsi scattare con addosso qualcosa che s’è portata da casa, come quello fosse L’Espresso e non Vogue, come i vestiti non fossero un linguaggio (e allora perché pagare una per sceglierteli?). Finisce per rispondere alla domanda sul power dressing con «se sapessi cos’è», che è come farsi intervistare da Quattroruote e rispondere «ah, boh, non ho la patente».
Martedì, mentre Vogue metteva sul sito le foto in cui la Schlein è vestita come càpita ma almeno non ha i soliti occhiali da sole in testa, Cecilia Matteucci pubblicava sul suo Instagram una foto. Quando avevo otto anni, Cecilia Matteucci era una signora che si vestiva come una matta. La guardavo, a bordo piscina al circolo del tennis, come si guarda un’aliena: chi è questa tizia tutta sbrilluccichi e vestiti strani?
Venticinque anni dopo, quando ormai sapevo com’erano fatte le modaiole, mi sembrava perfettamente normale incontrarla dietro le quinte della sfilata di Prada, che andava a omaggiare Sua Miuccità, e aveva la borsa di McQueen che tutte volevamo: a Milano, la Matteucci era perfettamente vestita da sfilata, e alla me piccina Bologna non aveva dato gli strumenti per capirla.
Adesso, che di anni ne ho cento, mi sembra che la Matteucci sia l’unica finestra bolognese su Milano o su New York, l’unico orizzonte di non provincialismo nell’abbigliamento. Lunedì ha incontrato per strada Nanni Moretti. La foto che ha instragrammato è stupenda, lei col rossetto rossissimo, i capelli biondissimi, gli occhiali glitteratissimi, e Nanni col sorriso educato di quello che trent’anni prima l’avrebbe buttata in piscina, ma oggi sono due persone anziane ognuna coi suoi tic e insomma ci vuol pazienza.
Continuo a fissare quella foto chiedendomi che faccia farebbe Elly, se Cecilia le chiedesse una foto. Ma, soprattutto, chiedendomi se la Matteucci proprio non possa fare un’opera di bene per la sinistra tutta e recuperare il gusto per i colori di quando ne avevamo uno e non cercavamo di inseguire la stregoneria degli abbinamenti, e rifare lei il guardaroba a Elly Schlein. Cecilia veste Elly è il servizio di Vogue che vorrei.