Si può giustamente ironizzare sul ritorno del Partito democratico alla lotta di classe grazie alla leadership di una rappresentante di classe, che della storia comunista e post-comunista non può avere avuto esperienza, ma solo nostalgia e che è cresciuta nella temperie movimentista della sinistra intrappolata in un patchwork identitario, che diventa un labirinto, non la strada che porta al nuovo sole dell’avvenire.
È facile dunque ritenere troppo leggerini Elly Schlein e il suo socialismo post-moderno radicato nell’elitismo no-global e negli scrupoli solidaristici del ceto medio riflessivo, non nel malcontento del vasto proletariato interclassistico del lavoro povero e incerto – subordinato o autonomo che sia – e nelle retrovie dell’ex aristocrazia operaia dell’industria manifatturiera, che oggi rappresentano il serbatoio incendiario del voto populista e sovranista. Leggerini, si intende, non rispetto alla forza intellettuale, ma alla pesantezza reale di una narrazione (a proposito di egemonia culturale), che fa coincidere tutti i problemi con l’asservimento nazionale agli equilibri di un’economia globale senza regole e senza confini e dunque tutta, senza eccezioni, “straniera”.
Se c’è poco da sperare che la segretaria del Pd, in vista delle prossime europee, sia in grado di ricostruire un blocco sociale da sinistra tradizionale – secondo le aspettative neppure dichiarate dall’interessata, ma piuttosto dai suoi zelatori e dagli imbucati nella sorpresa delle primarie Pd – non bisogna però sottovalutare la razionalità e la serietà (vedremo in che senso) del suo disegno politico-elettorale e del suo abbraccio da boa constrictor con Beppe Conte e il Movimento 5 stelle e con gli altri cespugli del centro-sinistra.
La devozione di Schlein al populismo double face dell’ex avvocato del popolo potrebbe rappresentare, assai più che un disegno di alleanza di governo, un modo rapido e indolore per provare a inglobare il prossimo giugno il massimo possibile di voto vetero e neo leftist confluito nel perimetro grillino: tutto quell’elettorato che, secondo la leggenda metropolitana popolarissima tra le élite progressiste, si era votata a Beppe Grillo e a Conte quando il Pd era diventato liberista – quindi ai tempi, se ricordiamo bene, di Bersani? – e che adesso potrebbe riconfluire nel Pd di nuovo conio, tutto diritti sociali e reddito di cittadinanza.
Inoltre, una esposizione marcata della segretaria sui temi dei diritti civili – che non fa né caldo né freddo ai maggiorenti del Pd (compresi quelli ex popolari e cattolici), a cui i diritti sono apparsi sempre una ottima opportunità segnaletica, non una vera opportunità e priorità politica – serve a riassorbire un po’ di centinaia di migliaia o nella migliore delle ipotesi un milione di voti o poco più dalle forze laiche (+Europa) o della sinistra eco-massimalista (Verdi, Sinistra italiana), particolarmente esposte su questi temi e oggi insidiate dal racconto di Elly che balla su un carro del Gay Pride e che è a favore della legalizzazione delle droghe leggere e della Gpa solidale, come mai, prima di lei, nessun segretario del Pd era stato e soprattutto era voluto essere.
La cosa che sembra sfuggire a molti osservatori è che Schlein non sta tentando di costruire una coalizione per battere Meloni, ma una strategia per incassare il massimo possibile di voti alle prossime europee, tenendo a distanza siderale qualunque competitor di minoranza, prosciugando le aree più contigue e rafforzando il ruolo del Pd come unico partito di sistema nel campo dell’opposizione. Mezzo punto in più alle europee vale molto più che una debacle in Molise.
Da questo punto di vista Elly è una vera “comunista”, interessata a preservare il potere e la centralità del partito da qualunque concorrenza di opposizione. Per la stessa ragione, però, la segretaria del Pd è al di là delle apparenze anche una vera democratica (nel senso “nazareno” del termine), perché se esiste una strategia che ha unito tutti, senza distinzione, i segretari del Pd, da Veltroni in poi, è stata quella di fare il Pd più grande e più superbo che pria, con un olimpico disinteresse rispetto agli effetti di questa strategia sulle possibilità di vittoria delle odiate destre, sempre abbastanza favorite dalle strategie partito-centriche del Pd.
Da Veltroni nel 2008, che a parte Di Pietro non accetta alleati in grado di contraddire la propria astrattissima ambizione maggioritaria, a Renzi nel 2014 che ubriacato dal 40% si mangia tutto quello che gli sta intorno e dopo tre anni capitola, a Letta che nel 2021 va ad Atreju poco prima del voto a promettere a Giorgia Meloni che non avrebbe mai cambiato la legge elettorale per le politiche (in modo, parte non dichiarata, che lei potesse vincere in carrozza, ma che al Pd continuasse a essere riservato di fatto il monopolio dell’opposizione).
Anche la scelta di non allearsi con il M5S del fortissimo riferimento progressista Beppe Conte ha, razionalmente, questa sola spiegazione. Fare del Pd l’unico voto utile di tutte le possibili sinistre vecchie e nuove. Anche in questo caso, missione incompiuta.
Se c’è una vera linea di contiguità tra il Partito Comunista Italiano e il Pd questa non va rintracciata nelle astrattezze e fumisterie ideologiche, ma in una cultura e pratica del potere del partito come alfa e omega della politica. Anche il Pd, come il PCI, non vuole nemici a sinistra e in fondo neppure al centro. Ma non vuole neppure alleati. Solo vassalli. E se si perde alle elezioni, in fondo non fa niente, perché anche il monopolio dell’opposizione è una posizione di potere.