Ho una spiccata preferenza per i politici che non volgono le spalle al collega, che sia compagno o camerata, finito nel mirino o nelle grinfie di qualche Procura per un’accusa più o meno infamante e che, prima di scaricarlo, aspettano non dico una sentenza definitiva, ma una verità un po’ meno provvisoria di una velina giudiziaria o di uno di quei dossieraggi, utili solo a confermare quanto avesse ragione Massimo Bordin a chiedere la separazione delle carriere tra magistrati e giornalisti, prima di quella tra inquirenti e giudicanti.
Non si può quindi dire che, in linea generale, non apprezzi l’idea che una maggioranza e un esecutivo, prima di liquidare un ministro per una inchiesta giornalistica (a maggior ragione se di Report e de Il Fatto) o per una indagine giudiziaria, aspetti che si posi la polvere dello scandalo e delle indignazioni a comando. L’apprezzerei invero di più se questa cautela non valesse unicamente per gli amici.
Non mi sfugge neppure che, in un Paese avvezzo a ritenere “illecito” sinonimo di “male”, lo scrupolo garantista sia spesso risolto – come è ovvio, a beneficio degli amici – in una paradossale condizione di immunità da qualunque giudizio e censura, anche per fatti e comportamenti il cui rilievo politico sia del tutto indipendente dalla loro eventualissima rilevanza penale.
Tutto ciò detto, c’è da aspettarsi che quel che accadrà oggi al Senato – l’informativa della ministra Daniela Santanchè sulle disavventure delle sue società e le posizioni della maggioranza contro le accuse e le richieste di dimissioni dell’opposizione – suonerà come una grottesca palinodia del linciaggio preventivo riservato qualche tempo fa a Aboubakar Soumahoro, per una inchiesta che riguardava la suocera e lambiva la moglie, ma in cui il deputato di origini ivoriane non era allora, né sarebbe stato in seguito coinvolto.
Lasciamo da parte – senza dimenticarlo – il modo in cui i partiti che l’avevano candidato l’hanno abbandonato in balia dei picchiatori politico-mediatici (di destra e di sinistra) che finalmente si vendicavano dell’ex bracciante, accusandolo, nella sostanza, di non vivere più in una baracca, dove tutti gli ex braccianti neri devono vivere se vogliono essere presi sul serio e non vogliono passare per venduti e traditori.
Consideriamo invece le ragioni del «Soumahoro si dimetta!» minacciosamente agitate ai tempi dalla attuale maggioranza parlamentare: un insieme di presunte malversazioni compiute da moglie e suocera nell’esercizio dell’attività imprenditoriale e un agio economico palesemente esibito, malgrado la spilorceria ricattatoria riservata ai dipendenti. Soldi spesi in vestiti di lusso e stipendi da fame, in ritardo o non pagati. Bella vita sbattuta in faccia a collaboratori dalla vita grama. Cosa manca per chiedere le dimissioni di Santanchè?
Si dirà: c’è una bella differenza con il caso Soumahoro! Certo che c’è, a tutto vantaggio del deputato scaricato da Verdi e Sinistra. Tutte le accuse transitavano su di lui indirettamente, per via familiare. Aboubakar doveva rispondere della suocera, Daniela non deve rispondere nemmeno di se stessa.
Perché? Perché la ministra editrice e balneare ha dalla sua la posizione (sta evidentemente dalla parte giusta, quella di chi comanda) e anche il colore (come direbbe il suo collega Francesco Lollobrigida, appartiene al ceppo autoctono italiano), e quindi non rischia né la poltrona, né l’oltraggio di quei fischi razzisti, che allo stadio fanno interrompere le partite, ma alla Camera, a quanto pare, non interrompono neppure l’emozione della caccia al deputato nero.