Risentimento di statusI peggiori anni del populismo italiano e la rabbiosa retorica anti-immigrazione della destra

La crescita dei partiti sovranisti italiani è coincisa con una protesta essenzialmente antipolitica contro gli stranieri. Lo racconta Armando Vittoria in “L’oppio dei populisti” (Mimesis)

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Con molta probabilità, il nome di Corridonia non evoca nulla al lettore medio. Si tratta di un piccolo paese della provincia maceratese inerpicato su di una collina, e posto su una frattura naturale che divide le valli del Chienti e del Cremone. Esattamente come per la geografia fisica di Corridonia, anche quella politico-sociale può considerarsi una metafora perfetta della linea di frattura (cleavage) che dopo la crisi del 2008 ha prodotto nella società italiana – come in gran parte delle democrazie mature – quelle nuove insicurezze, divari (divides) e diseguaglianze socio-economiche su cui i partiti populisti hanno costruito un largo consenso ad una protesta essenzialmente antipolitica ed anti-immigrazione.

Negli anni successivi, e particolarmente con la crisi dei rifugiati seguita alla destabilizzazione del Maghreb e della Siria, è emerso infatti con chiarezza come la consolidata lettura di uno zeitgeist populista, essenzialmente connesso alle diseguaglianze economiche e alla crisi dell’offerta politica tradizionale, non implicasse necessariamente una chiusura del campo di studi ad altre prospettive analitiche. Come ha elegantemente riconosciuto colui che può considerarsi il principale fautore di quella lettura, una volta “d’accordo su cosa intendiamo per populismo in sé, il fenomeno in pratica è [diventato] quasi esclusivamente di destra radicale” (Mudde 2018). Improvvisamente il Re è diventato nudo, e il capitale elettorale accumulato dai soggetti populisti distintamente leggibile, in molti sistemi europei ed in Italia in particolare; leggibile come la stessa domanda sociale e politica che lo alimenta e non solo per effetto di una crisi, pur presente, dei partiti tradizionali. E così, il populismo far-right di oggi ha preso a ricordare molto quella destra radicale di cui Seymour Lipset scriveva già negli anni ’50 dello scorso secolo. Forze politiche che agitano una politica di status e non di classe, e le cui ideologie e consensi si basano sul “non usuale risentimento di individui o gruppi che desiderano mantenere o migliorare il proprio status sociale” e “che ritengono che vari cambiamenti sociali minaccino le loro stesse pretese di un’elevata posizione sociale, o consentano a gruppi di status precedentemente inferiore di rivendicare il loro stesso status […] Non sorprende, quindi, che la politica dei movimenti che hanno fatto appello con successo ai risentimenti dello status sia… irrazionale, che si concentri sull’attacco a un capro espiatorio, che simboleggia convenientemente la minaccia percepita dai loro sostenitori” (1955).

Sembra che il populismo, tutto, stia rivelando la sua reale natura: quella anti-immigrazione. Più di tanto altro, è forse questo risentimento sociale, questa “percezione di un declino di status” (Gest et al. 2018, 1702), che si colora in senso socioculturale di nostalgia, nativismo, etnocentrismo e avversione verso un “capro espiatorio” (come l’immigrato), a spiegare la crescente affermazione dei partiti far-right, soprattutto in Italia. Non già ideologia, il populismo è piuttosto il dispositivo politico che dà forma a questo risentimento individualistico di status situato ai margini delle democrazie mature. Risentimento e paure che un ceto medio o piccolo-borghese – un declining middle (Kurer 2020) – prova sempre più ad esorcizzare erigendo barriere di protezione economica, di difesa religiosa e culturale, di esclusivismo di genere, ma soprattutto etniche, piantate come ‘muri’ in pieno mare per respingere la minaccia sostanziale e simbolica rappresentata dal “capro espiatorio”: dall’altro-da-sé, che sono le famiglie non tradizionali, le persone – particolarmente le donne – che provano ad autodeterminarsi ma su tutti lo straniero, l’immigrato.

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Tutto questo riporta ancora a Corridonia, che è una efficace metafora del populismo come politica dei margini che si fa politica anti-immigrazione: della separazione ed esclusione. Da qui, in fondo, inizia la campagna elettorale italiana del 2018 che segna la prima forte avanzata dei partiti populisti, allorquando il 3 febbraio, esattamente un mese prima che si aprano le urne, Luca Traini vi parte per raggiungere il capoluogo Macerata ed esplodere numerosi colpi di calibro nove contro un gruppo di immigrati di origine sub-sahariana fermi per strada, ferendo gravemente sei persone – e colpendo, tra l’altro, anche una sede del Partito Democratico (PD) locale. Poco dopo, le forze dell’ordine lo arresteranno in pieno delirio neofascista: con un tricolore legato al collo, Traini omaggiava con tanto di saluto romano il Monumento ai Caduti della città, gridando “Viva l’Italia”.

Le elezioni politiche del marzo 2018 sono le prime della storia repubblicana caratterizzate da un’agenda mediatica e dei partiti dominata dal tema dell’immigrazione; da una retorica etnocentrica in cui si mescolano le promesse di suprematismi – “prima gli italiani” ma anche “prima i foggiani” o, certamente, i “maceratesi” – e una violenta campagna di criminalizzazione dei rifugiati, con le ONG di soccorso ai migranti dipinte come “taxi del mare”. È l’intero discorso pubblico a caricarsi di un clima di hating e di othering (Lazaridis et al. 2016), dipingendo gli immigrati alla stregua di un nemico oggettivo.

Per i partiti populisti come il Movimento 5 Stelle (M5S) e far-right come la Lega Nord (Lega) e Fratelli d’Italia (FDI) l’immigrazione è un capitale elettorale, e i migranti degli scapegoats (Goodfellow 2020): i capri espiatori cui addossare prima le colpe della crisi economica e sociale iniziata con la bolla del 2007, poi le conseguenze della scelerata politica europea di austerità. I partiti del centro-sinistra, dal canto loro, sono da tempo in crisi di identità e non riescono a fare meglio che tacere sull’immigrazione, se non schiacciarsi sull’agenda anti-immigrazione degli avversari. Così nel collegio uninominale Marche 6 (Pesaro), in una provincia da sempre governata dalla sinistra e non molto distante da Corridonia, alle elezioni del 2018 il PD decide di contrapporre al giovane grillino Andrea Cecconi un proprio esponente di spicco: quel Ministro degli Interni uscente Marco Minniti che con i decreti del 2017, e i molto discussi accordi con la Libia, aveva ostentato una politica sull’immigrazione tanto securitaria da cogliere il plauso delle stesse destre. Minniti viene però travolto dal candidato dei 5 Stelle perché l’originale, probabilmente, si preferisce sempre alla copia.

In buona sostanza, il passaggio elettorale del 2018 evidenzia come, ben oltre l’agenda politica e delle politiche, la politicizzazione dell’immigrazione abbia assunto per la società e per il sistema politico italiano una valenza paradigmatica. Mentre l’esplosione del M5S raccoglie un risentimento sociale più giovanile e anche più metropolitano, la disillusione verso la politica e i partiti tradizionali comincia anche a mescolarsi con la paura di arretramento nella ricchezza, di deprivazione di status di alcuni segmenti sociali – che un tempo si sarebbero detti “provinciali” e “piccolo-medio borghesi” – in Italia tradizionalmente larghi nonché elettoralmente determinanti. Inizia a distinguersi una nuova offerta far-right il cui messaggio è imperniato su un vasto quanto indefinibile scudo di protezione nativista contro tutte le minacce della globalizzazione: dalle delocalizzazioni al multiculturalismo; dal gender alla famiglia non-tradizionale; dall’immigrazione in sé all’agitato pericolo di una sostituzione etnica.

Il risentimento politico anti-immigrazione sembra essere diventato l’oppio dei populisti: dei partiti, ma principalmente degli elettori. Pur tra le oscillazioni a livello di singolo sistema politico, appare generalmente crescente il consenso verso quelle piattaforme politiche incentrate sul protezionismo economico e industriale; restrittive e repressive sui flussi migratori, come sul diritto d’asilo e sulla estensione della cittadinanza; ‘nativiste’ e neo-patriarcali sui temi dell’educazione, della famiglia, dei diritti alla procreazione o all’aborto, sulle unioni civili o la genitorialità non tradizionale; e, più in generale, che etnicizzano l’idea della cittadinanza democratica, come per i diritti sociali e del welfare, accogliendo il principio di una restrizione nell’accesso alle politiche sociali per i non-nativi, mediante soglie, franchigie o semplice esclusione (welfare chauvinism).

Tratto da “L’oppio dei populisti. Risentimento di status e politica anti-immigrazione in Italia (2008-2022)” (Mimesis), di Armando Vittoria, pp. 156, 13,30€

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