Devo prima imparare a leggereCosa c’è nell’aldilà, oltre la quarta di copertina

La terza puntata del romanzo di Pasquale Panella, romanzo del quale non sa nulla, neanche il titolo. «Certe volte giochicchio con un pensiero tondo tondo come con una moneta alla quale fare salire e discendere il dorso delle dita, me la spasso col pensiero che addirittura possano anche esistere gli dei, ma solo loro, solo dee e dei»

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L’umanità ha inventato le parole e i segni, nessun altro essere vivente è andato oltre l’urlo e l’orma, o quasi (del resto l’umanità non è mai andata oltre l’infanzia). Ricordo l’obiezione di lei, sazia e appagata, torpida, veggente con gli occhi semichiusi, supina, la testa su un braccio ripiegato, la nuca sul polso interno, dove batte l’arteria, l’indice un po’ curvo dell’altra mano che uncina l’aria sopra la sua fronte (merlettava forme d’animali in volo e in corsa e a nuoto e ali e code e pinne e righe scritte): «Però, davvero, se un topo, un tordo, anche un cavallo, un ermellino, una starna, una volpe, una foca, un grongo, una faina, se un animale, insomma, anche domestico, se una bestia se ne uscisse con una tirata elisabettiana, con una sparata in terzine a rime alterne, con una codata di “addio ponti, curvi sull’acque”, ecco, se accadesse, sarebbe una cosa davvero da ridere, raccapricciante, spaventosa però comica, come quando un umano inciampa e cade.

Gli animali… andature, corse, balzi, evoluzioni, svolazzi, la sempre bella calligrafia dei movimenti in aria, sul solido e nel liquido, versi essenziali, che altro dire? Hanno bisogno di significare? Manti, livree, piumaggi, pelami, chiocciole, anelli, figurativismo e astrattismo tutt’uno, che altro? Installazioni nei cieli, sulla terra e nel mare, da sempre (quelle dei nostri artisti non sono che trappole per concetti sovrastimati). Animalesca fluidità nell’elemento in tutte le stagioni, primavera-estate, autunno-inverno, stagioni che le bestie umane percorrono soltanto in passerella con la scioltezza e la falcata e la volatilità delle bestie bestie. Ma vogliamo scherzare? Vorremmo che declamassero, cantassero scemenze su basi musicali, scrivessero sonetti, poemi, romanzi, le bestie? E perché? Sarebbe la loro pagliacciata, un imbarazzante sproposito, comico, anche triste.» Sì, davvero, che pagliacciata.

Solo l’umanità scrive, tutta l’umanità. Solo io no. Domani scriverò (è il mio motto), non oggi. Non sono pronto. Devo prima imparare a leggere. Non l’ho ancora detto che non so leggere? È che non sapevo come scriverlo. Da bambino ho ascoltato il rosario, è stata la mia formazione, avrò avuto sei anni, anche sette. La scricchiolante voce solista del prete, le sillabe che coi loro colpetti di punta e di taglio e di contorni convessi e con cozzi e pressioni aprono crepe sul guscio da uova sode e da cupole delle vocali, il respiro delle donne pronte a tutto che sibila tra labbra che fremono come lacerazioni lì lì per slabbrarsi in fenditure latine, e poi, poi, eccolo, eccolo, ancora lo sento quello scroscio delle voci femminili, serrato, impetuoso, una vorace onda d’urto, una straripante nuvola trafitta da un raggio di sole che già penetra nello squarcio che si allarga e da esso sgorga il pietrisco minuto, polvere e voci e poi ciottoli e massi di petti di donna a pieni polmoni, e tutta la volta precipita e la nuvola ambrata e gonfia di voci e di petti toccando il suolo balza all’insù con spasmi barocchi. Il rosario. Che piacere. E io stavo lì in mezzo. Poi dice che uno non si converte (chi lo dice?). Mi convertii, aderii a quelle voci che mi accolsero in una abbondante cipria dorata.

A ogni rosario la chiesa rovinava sul suo pavimento espandendosi nell’ambrata nuvola dal colore del melone aperto e attraversato dal tagliente sole vespertino estivo (era sempre estate, perché?) e io non dico al centro ma là in mezzo gioivo. Non ero niente di chissà che, anzi se mi rivedo vedo me come un animaletto recente ancora nella lanugine, nudo, con gli occhi più grandi delle mie palle a quel tempo. La questione è che restavo incolume in mezzo a tutto quel crollo, anzi gaudente senza nemmeno sapere che stessi godendo e nemmeno perché, figuriamoci di che. Miracoli.

Insomma, ma che vi leggete? Cosa vi manca sopra questa terra che la cercate nei libri di lettura amena? Amena accanto a lettura non s’accosta più? È perché? L’aggettivo non è sconcio. È sconcio? Io non so a che punto stanno le parole. A me amena piace. Vado a leggere (o dei, so già un po’ leggere col dito sotto): “… che ha per fine più il diletto che l’educazione”. Ecco, ho capito perché mi piace. Ma chi è che legge ormai più per diletto? Dopo quel giorno, poi, dopo quel giorno (ma davvero si muore leggendo per diletto?). O forse è solo per diletto che leggeremmo, in solitudine e senza che si sappia. O no? Saremo interrogati. Mi pare anche giusto. Cosa c’è nell’aldilà, oltre la quarta di copertina? Non sono domande avvincenti? Certe volte giochicchio con un pensiero tondo tondo come con una moneta alla quale fare salire e discendere il dorso delle dita, me la spasso col pensiero che addirittura possano anche esistere gli dei, ma solo loro, solo dee e dei (sono forse il mio passatempo gli dei?), e che siano gli umani a non esistere, cioè ci siano per non esistere, ecco, che siano parte del nulla, che c’è per non essere, c’è per non esserci (il nulla deve pur esserci prima di prendere la decisione di non esserci, il che vuol dire che tutto è sempre quel nulla che sta lì lì per decidere).

Le creature umane esistono come assurda dimostrazione dell’esistenza degli assurdi dei. In realtà non c’è realtà, anch’essa assurda. Com’è che tutto questo mi pare più facile del contrario, del cosiddetto esistente? Anche meno pesante. (E se fossero il mio pubblico le dee, gli dei?). E queste righe? Nulla anch’esse. Oppure chi le legge è già una creatura divina, che giudica divinamente. O tu che leggi… Sto dando i numeri o non è forse così per davvero? Sei una creatura divina tu che leggi? Avendo prima miracolato me che scrivo.

(Immagina se adesso mi risponde). Non ho fatto soltanto il bigliettaio, ho fatto anche il conducente di tram (e non sotto metafora ma veramente in serpa, al posto di guida come un cocchiere), ne scriverò più avanti. (Ma insomma, so già tutto e non so niente?). Sto solo cercando di far quadrare il cerchio con la botte piena di vita. Non invento né immagino. Se vuoi rispondermi tu creatura divina che come sopra mi leggi, se mi rispondi, guarda, nemmeno mi prende un colpo. Se è è. Non c’è da inventare niente. Ho compilato in bella scrittura la richiesta per la riscossione del diritto d’autore, quei pochi centesimi a utente. Se la domanda è accolta, sono a posto. Il resto è chiacchiera, è promozione. Devo solo trovare un titolo. Forse una lotteria?

Sono sempre un bigliettaio. Tot a biglietto, il dieci per cento a chi indovina il titolo (una percentuale da autore trattato bene), a me il restante novanta, che poi è il cento perché il titolo non lo indovinerà nessuno. Però conservate il biglietto che certamente sul mercato delle reliquie in rete susciterà interessi. Io, senza sapere né leggere né scrivere (lo vedete che è vero?), ne stamperò altri, falsi ma veri, casomai l’imbecillità tendesse all’alto. Così, per arrotondare la punta della mia stecca da biliardo commerciale. E perché se lo meritano e ve lo meritate.

(3 Continua)

Questa è la terza puntata di un romanzo in corso del quale non sa nulla, neanche il titolo. Qui si può leggere la seconda.Qui la prima.

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