Domani scriverò, per intanto faccio i primi passi in tram. Insomma, ho un’ambizione: fare il bigliettaio sul tram, starmene in bilico sul posatoio in mezzo a tubi da giungla d’acciaio con davanti la mangiatoia di ghisa nella quale cadono saltellando i tintinnanti spiccioli (da piccolo il denaro è così vivace), starmene spesso né in piedi né seduto ma quasi in piedi e quasi seduto, diagonale in mezzo ai tubi come uno di quei coltelli nel ceppo d’acciaio, le natiche sul bordo del seggiolino né verticale né orizzontale ma obliquo e basculante perché lo faccio oscillare e oscillo anch’io con esso, e punto i piedi sul poggiapiedi, sussultante, pelvico, strafottente, così: per insolenza.
Spiccioli per biglietti: per due spiccioli ecco a voi il biglietto, che è color aragosta o verdemare o turchino, anche grigio, giallo chiaro canarino, giallo scuro canarino olandese, fragola (a seconda degli orari delle corse del romanzo), gli stessi colori e la stessa consistenza di quei foglietti con su scritto il titolo ovvero la tratta, il percorso e tutto il resto appresso, servizio, vettura, andata, ritorno, direzioni e versi, numeri, cosette cantabili in viaggio, e le ruote ci mettono ritmo e musica sotto. Cose che accadevano un tempo. Ci sono cose che non accadevano un tempo, forse? L’oggi è un punto di vista, non è mica un tempo.
L’oggi è il posatoio, i biglietti prendono il volo come farfalle tra le dita dell’umanità viaggiante, dell’umanità destinata a passare, come infatti mi passa davanti dopo la salita alla fermata dalla quale ci allontaniamo, e la fermata è già quel tempo, per dire, perduto. Le farfalle trascinano chi acchiappa farfalle, dita e tutto, non è vero il contrario (è sulle fragili e polverose ma colorate ali di spavalderie come questa che la scrittura procede).
Dietro il biglietto c’è scritto: “Conservare il biglietto e presentarlo aperto a ogni richiesta del personale”. Comunicazione perentoria, ingiunzione imperiosa, ammonimento sacerdotale, profezia, cos’è? Manuale, Catechismo, Pizia, Sibilla? È incredibile come il passato a rileggerlo è tutta veggenza, precetto e dizionario. Ricordo scurrili revisioni della frase (ah, quell’editing triviale che è poi diventato correzione in correttezza… mi viene in mente, oddio, il correzionale, il riformatorio per minorenni… da quanto non me lo sentivo nominare) ma non è questo il punto. Il punto è quel biglietto, la carta suggellata, il foglio volante (te lo ricordi il foglio volante?), la bolla, il piccolo contrassegno di ammissione allo spettacolo, spettacolo esso stesso, carta cantante. Per pochi spiccioli avrei elargito biglietti per viaggetti d’evasione (dal correzionale?) della gente.
A te che leggi sarà sempre chiesto conto di quel che leggi (tienitelo per detto), sappilo, poi non dire che non lo sapevi. Credo che gli dei a questo servano, a chiederti, quando sarà il momento, che ne pensi di quello che hai letto e, qui sta il peggio, cosa hai letto, e non credere che sfoggiare il meglio ti salvi, non crederlo (ci vuole una certa bravura a non cadere nell’equivoco del meglio). Sulla terra non so, forse la critica è esercitata ancora da soggetti addetti, e con le penose e risibili conseguenze che sappiamo, di piagnucolio o di ingannevole esaltazione (si stroncano e si elogiano vittime designate convenienti). Ah no, invece no, lassù lassù con gli elogi e le stroncature ossia con l’aria fritta non ci si fa nemmeno una piccola nuvoletta passeggera, altro che il bello e il cattivo tempo.
I libri servono a recensire te. Perché? Perché è tutto uno scherzo lassù dove tutto è già noto, quindi non c’è spazio se non per la burla, per l’inganno. È amatissimo l’inganno lassù, ma sì, per soddisfare l’ingenua pretesa di ingannare il tempo, e sì, per passatempo anche, giusto, per fingere un po’ che il tempo passi e addirittura, to’, che il tempo esista, guarda un po’.
E allora sarai interrogato sulla materia che porti dalla terra ossia la vita come passatempo letterario. Comprendiamo tutto ciò che è già compreso nella fascia mediana e conveniente del senso (la fascia per fasciarsi la testa o le corna prima di rompersele scervellandosi), consideriamo citabile tutto ciò che è citabile perché è solo citabile, impennacchiato come un cavallo circense che gira e rigira e rilascia anche rotoli di citabile merda sulla pista, ripetiamo paradossi come fossero enunciati lineari e equilibrati quando invece sono esercizi per trapezisti volanti via dal mondo, per illusionisti che fanno sparire tutto il pubblico, per giocolieri con sei e più palle, per acrobati sul filo del discorso, ci sbricioliamo in tenerezze morali di truciolato fradicio, esibiamo piagnistei a spruzzo con la peretta, offriamo merende di altruismo diarroico spalmabile e appiccicoso, sgoccioliamo come alici pressate le nostre colature sentimentali.
Patetico e risibile, il nostro è il momento del pagliaccio (com’è che non esiste il corrispettivo femminile? Ci sarà una ragione). Noi chi, scusa? (Chi ha parlato?). Noi tu, o asessuato lettore neutro. (Non sei tu la mia lettrice). Cosa abbiamo? Che altro? Vuoi fare spettacolo? Non fare il pagliaccio, siilo. È il tuo momento, c’è sangue e segatura sulla pista, non puoi entrare che tu.
Entra… Ecco, puoi rallegrarti della tua tristezza e rattristarti della tua allegria, tutt’assieme, perché è il momento dell’insensibilità, non sei né triste né allegro, l’allegria e la tristezza ti piacerebbe infliggerle. Quella del pagliaccio è l’unica figura con la quale nemmeno ci provi a immedesimarti (non ce n’è bisogno), è il polo uguale di un magnete al quale ti avvicini perché ti piace che ti respinga, come da te ti respingeresti spesso. Nei tuoi momenti di lucidità crudele ti pare che la sua sia la natura di ogni personaggio letterario (soprattutto quando ti pare che un certo personaggio letterario potresti essere tu). Ma non è un po’ inattuale la figura del pagliaccio? (Sento pormi la domanda).
Lo è, lo è da sempre, da sempre è inattuale, rende sopportabile l’allontanamento dalla vita, infatti è una figura relegata, condannata a vivere nei limiti di un cerchio in un rotondo esilio come in un bersaglio (il suo sesso è un naso rosso), figura anche stantia, che sa di costumi nel baule, figura anche ammuffita (le sue verdognole lacrime finte), e che, sì, magari si disfa da sé (è esattamente quello che fa, e non è forse questo il suo eroismo?), così ce ne liberiamo, no? (Piangendo dal ridere, ridendo dal piangere… sì, certo, continuiamo così, tanto è gratis dire qualsiasi cosa). Ma non è comico però, il pagliaccio, questo va detto a sua difesa. Dove eravamo?
Ah sì, in carrozza… il biglietto, il documento, lo stampato, il testo, il libro… e noi siamo libri aperti per gli dei. Chi legge ha questa responsabilità: diventare una carriola e trasferire dalla terra al cielo i fogli sciolti e a pacchetti, i diari fioriti (i fiori: la parte della pianta contenente gli organi sessuali), gli scritti, i testi, i bigliettini, le frasi, i versi (il più fiorito che dice: io contengo ammucchiate nella mia inflorescenza), infiniti commenti a commenti infiniti. Gli dei non leggono (non hanno il tempo, proprio non ce l’hanno) ma gradiscono i riassunti, le citazioni, il frasario celebre, il detto e il contraddetto (il non detto anche, anzi soprattutto), la diceria, il pettegolezzo, il vasto repertorio di sciocchezze terrestri. Le ascoltano ruttando sorrisi di ambrosia lenitiva. C’è chi non crede nell’esistenza degli dei? (Perché? C’è chi ci crede?). Non cambia nulla, sarà interrogato lo stesso.
(2 Continua)