Sembra una normale giornata di fine estate a Kyjiv, anzi più calda del solito perché il riscaldamento globale oltre alle altre disgrazie è arrivato anche qua. Cerco un po’ di ombra sotto gli alberi agli incroci con i passaggi pedonali. Intanto che aspetto il semaforo verde, leggo una locandina attaccata al palo della luce: annuncia un concerto, l’atra locandina annuncia una mostra, un’altra ancora annuncia un film. Una vasta scelta di spettacoli in un paese che vive ogni giorno la guerra. Nel mio cellulare, per quel mese che sono rimasta in Ucraina, erano segnate le date degli spettacoli che volevo vedere. Del resto l’arte ucraina oggi è così fragile che domani può non esserci più. Il domani in Ucraina può non arrivare non solo per l’arte, ma per qualsiasi persona, che sia coinvolta nell’arte o no. Si vive ogni giorno come se fosse l’ultimo e quindi si canta ai concerti, si visitano le mostre e si organizzano i festival per vivere questa vita così com’è.
Il primo concerto nella mia lista è quello di Serhiy Zhadan e amici. La data coincide con il quarantanovesimo compleanno del poeta e dello scrittore ucraino contemporaneo più noto, nel programma sono previste le esibizioni di gruppi che cantano canzoni sui suoi testi. L’inizio ritarda per una sirena. Stiamo aspettando nella metro, appena la sirena finisce di suonare saliamo in superficie, raggiungiamo la sala nella quale è segnata con le frecce la direzioni verso il rifugio antiaereo. Una voce annuncia che in caso di sirena il concerto verrà interrotto e al pubblico verrà chiesto di scendere nel rifugio.
La guerra non è di intralcio, la guerra fa parte ormai del quotidiano, della routine che va fatta ogni giorno per garantirsi un po’ di normalità. Un concerto normale è quello organizzato in una sala con un rifugio antiaereo e quello in cui almeno la metà del ricavato dei biglietti andrà alle Forze armate d’Ucraina. Nessuno spettatore ucraino andrà a uno spettacolo dove non ci sia una raccolta fondi. Anche questo è il modo di contribuire alla causa ogni giorno.
Sul palco si esibiscono gli artisti che cantano le canzoni scritte sui testi di Zhadan, in alcuni momenti interviene anche lui. Alla fine del concerto sul palco arriva il gruppo storico rock “Braty Gadyukiny” (I fratelli Gadyukin), le cui canzoni ultimamente è lo stesso Zhadan a cantarle con il suo gruppo “Sobaky v kosmosi” (I cani nel cosmo) ricordandoci che abbiamo una tradizione del rock tutta nostra che non è stata oscurata negli anni della presenza ingombrante della musica russa che nei diversi periodi della nostra storia da nazione indipendente ha cercato di conquistare con forza il nostro spazio.
Nella sala regna l’atmosfera di un compleanno, sul palco tutti si abbracciano e condividono la gioia con il pubblico. Mi ricorda il momento che non ho vissuto di persona ma del quale mi hanno raccontato in tanti, l’ultimo giorno del festival di letteratura a Kyjiv di fine giugno, quando in tanti hanno abbracciato per l’ultima volta la nostra cara amica scrittrice e investigatrice dei crimini di guerra Victoria Amelina prima della sua partenza per Kramatorsk, dove sarebbe stata ferita a morte. Tutti gli spettacoli in Ucraina hanno quel sottofondo di amarezza che potrebbe essere l’ultimo, visto che tanti artisti sono impegnati nel volontariato o direttamente al fronte. Si esce dalla sala cantando, poi si riascoltano le canzoni a casa.
Subito dopo, nelle mia lista c’è la mostra di Mariya Prymachenko, la pittrice originaria della mia regione di Ivankiv. Ha vissuto tutta la sua vita in un piccolo paese, disegnando il suo mondo effimero fatto di animali, uccelli, fiori e persone, fondendo nell’arte la sua esperienza tragica della vita. Mariya Prymachenko ha perso il marito al fronte della Seconda guerra mondiale, ha cresciuto un figlio da sola, ha visto e ha vissuto la tragedia di Chornobyl. Anche la guerra russo-ucraina in un certo modo l’ha toccata, perché nei primi giorni dell’invasione russa su larga scala il suo museo a Ivankiv è stato bombardato, il personale è riuscito a malapena a salvare i quadri dall’incendio provocato dal bombardamento. Potevamo perdere quei quadri e quanti ne abbiamo già persi nei musei di Mariupol, Melitopol e Kherson.
Gli occhi avidi insieme con la fotocamera del telefono cercano di ricordare ogni quadro, ogni schizzo e ogni scritta che la pittrice inventava. Colpisce molto il quadro giallo con gli uccelli rosa seduti su un tumulo di terra verde, con la scritta che dice: «La fossa comune non si scorda mai, è sempre coperta dei fiori e delle lacrime delle madri che non si asciugheranno mai affinché non si ripeta mai più la tragedia». È stato disegnato nel 1985.
Al terzo piano dell’edificio che ospita la mostra, c’è l’esposizione dedicata a Polina Rayko. La sua arte, rispetto a quella di Prymachenko, non c’è più perché è andata persa nell’alluvione dovuta al bombardamento della diga di Kherson. La casa di Polina Rayko era il suo museo con le pareti disegnate da lei, tutte distrutte e scrostate dall’acqua che ha allagato la casa. Della sua arte sono rimaste solo alcune foto a testimoniare e a comporre questa mostra che rilascia nient’altro che un senso di vuoto, un patrimonio del quale ci hanno privati e che non potremo mai più riavere indietro. Non vedremo mai la casa-museo di Polina Rayko con i suoi animali strani, gatti, gufi o leoni.
Vado a colmare il mio senso di vuoto con un po’ di ironia e comicità. Dopo aver visto e rivisto i video su YouTube di stand up ucraino, finalmente vado a vederlo dal vivo. Sono fortunata perché allo spettacolo mi sono imbattuta in due dei miei comici preferiti. Lo stand up ucraino è esploso nel febbraio 2024, ne ha parlato anche David Letterman nella sua puntata girata in Ucraina per Netflix. Si chiama «stand up partigiano», spesso si organizza direttamente nei sotterranei per evitare di spostarsi nei rifugi in caso suonasse la sirena. L’umorismo è una delle nostre armi più potenti, rafforza lo spirito, scarica la tensione, demoralizza il nemico. Tra una risata e l’altra c’è un’asta benefica: come lotti vengono proposti per esempio il cofanetto di un Javelin usato o un tridente fatto di bossoli. Le cifre vanno dai dieci a ventiquattromila grivne, tutti soldi destinati ai gruppi dell’esercito ucraino. L’umorismo in questo caso diventa davvero un’arma potente fusa nelle donazioni.
Uno degli ultimi eventi nella mia lista è il film ucraino “Dovbush”, uscito a fine agosto nelle sale cinematografiche, un film d’azione storico che parla della figura del ribelle Oleksa Dovbush, il capo degli opryshky, i partigiani delle montagne dei Carpazi che nel Settecento si opponevano al dominio polacco. Le riprese dei film sono state interrotte più volte prima per la pandemia, dopo per la guerra. I lavori del film sono stati conclusi in Polonia, la quale viene ringraziata subito nei titoli di testa. Un film d’azione ucraino così non si è mai visto, oltre le scene spettacolari da vero film hollywoodiano, la pellicola del regista Sanin ha il gusto del cinema ucraino poetico classico e dialoga con Paradjanov e il suo “Le ombre degli avi dimenticati”, la pietra miliare del cinema ucraino sovietico.
La storia reale di Oleksa Dovbush finisce male, l’eroe popolare viene ferito in un agguato e muore dissanguato. Il cinema, però, ha quella capacità di cambiare la realtà a volte in bene e nel caso di Dovbush alla fine il regista lascia un finale aperto (forse è vivo, forse no) e con una frase a tutto schermo «Borotba tryvaye», «La lotta continua». La nostra lotta continua sia in prima linea sia nelle sale concerti per salvare il presente, per salvare noi. L’arte sa spiegarci chi siamo noi in questo momento cruciale della storia ucraina. L’arte ucraina parla di noi e parla a tutti noi.