L’esodo della quasi totalità degli armeni dal Nagorno-Karabakh ha scritto la parola fine a uno dei conflitti latenti più difficili del mondo. Con l’annuncio dello scioglimento dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh è calato il sipario su una disputa territoriale che nei decenni ha causato la morte di decine di migliaia di persone e più di un milione di rifugiati, avvelenando profondamente le relazioni tra i popoli della regione. La vittoria dell’Azerbaijan risuona ben oltre il Caucaso meridionale, e arriva in un momento in cui gli Stati Uniti, l’Europa, la Russia, la Turchia e altri attori competono per la supremazia e un ruolo in un quadrante che dopo l’invasione russa dell’Ucraina è diventato un crocevia indispensabile verso la ricchezza energetica e mineraria dell’Asia centrale. Ciò significa non solo che la storia del conflitto tra armeni e azeri non è finita, ma che non è più solo una questione periferica dello spazio post-sovietico.
Le tre guerre del Nagorno-Karabakh
Nel corso della storia la regione del Nagorno-Karabakh è stata sotto il controllo di vari imperi: persiani, turchi, russi, ottomani e, più recentemente, i sovietici. Nel 1917, sulla scia del crollo dell’Impero russo, l’Armenia e l’Azerbaijan dichiararono l’indipendenza e rivendicarono il Karabakh – insieme ad altre due regioni etnicamente miste, il Nakhchivan e il Zangezur.
La guerra scoppiò nel 1920, ma prima che ci fosse un vincitore l’Unione Sovietica conquistò l’intero Caucaso, e il Nagorno-Karabakh diventò una regione autonoma all’interno della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan. Le tensioni etniche esplosero nuovamente nel 1988 nel contesto della disintegrazione sovietica, culminando in quella che sarebbe diventata nota come la prima guerra del Karabakh. La guerra si concluse nel 1994 con la vittoria degli armeni sostenuti da Yerevan, che presero il controllo non solo del Nagorno-Karabakh ma anche di ampie aree del territorio azero che lo circonda. Dopo sei anni, trentamila morti e un milione di sfollati (in gran parte azeri), la guerra era finita.
In assenza di un trattato di pace gli armeni locali proclamarono la Repubblica di Artsakh, uno stato non riconosciuto pienamente neanche dall’Armenia ma de facto indipendente, e il Nagorno-Karabakh diventò uno dei tanti conflitti irrisolti riemersi dalle ceneri dell’Unione Sovietica. Durante questo periodo Yerevan formò una partnership di sicurezza con Mosca – che tuttavia vendeva armi a entrambe le parti – mentre Baku sviluppava i suoi legami storici con Ankara.
L’equilibrio di potenza ha iniziato a spostarsi in favore degli azeri dopo il 2010, poiché la ricchezza energetica del paese e il sostegno turco gli hanno permesso di rafforzarsi economicamente e politicamente, fino a raggiungere un significativo vantaggio militare e geopolitico sull’Armenia. Alla fine del 2020 l’Azerbaijan, sostenuto dalla Turchia e ben armato anche da Israele (in funzione anti-iraniana), ha lanciato un’offensiva che gli ha permesso di reclamare gran parte del territorio del Nagorno-Karabakh e il territorio circostante che l’Armenia aveva preso nel 1994.
La seconda guerra del Karabakh è stata molto sanguinosa, un mese e mezzo di scontri con più di seimila morti. La tregua fu mediata dalla Russia, che inviò duemila soldati per una missione di peace-keeping a tutela del corridoio di Lachin, l’unica strada che collegava il Karabakh all’Armenia. A dicembre 2022 gli azeri hanno chiuso corridoio di Lachin per mettere sotto assedio il Nagorno-Karabakh e costringere i leader dell’Artsakh al tavolo del negoziato, violando l’accordo di cessate il fuoco e causando una crisi umanitaria. I peace-keeper russi sono rimasti indifferenti e, ad aprile, Yerevan ha annunciato che avrebbe rinunciato alle rivendicazioni sul Karabakh se Baku avesse garantito i diritti degli armeni che ci vivevano. Ma ormai era troppo tardi.
Il 19 settembre l’Azerbaijan ha lanciato un’offensiva per prendere il pieno controllo del Nagorno-Karabakh, costringendo le autorità dell’Artsakh ad arrendersi. Baku ha promesso agli sconfitti l’amnistia e la pacificazione, ma in pochi sono rimasti. Nel giro di pochi giorni centomila persone – più dell’ottanta per cento della popolazione armena locale – hanno lasciato per sempre il Nagorno-Karabakh temendo persecuzioni e operazioni di pulizia etnica. Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, è diventata una città fantasma.
L’Armenia e l’Azerbaijan dopo la fine dell’Artsakh
Anche se può sembrare che la questione del Nagorno-Karabakh sia stata chiusa una volta per tutte con la vittoria azera, uno scontro potenzialmente più grande tra Yerevan e Baku potrebbe arrivare da un’altra regione: il Syunik, la provincia armena meridionale che separa il territorio autonomo azero del Nakhchivan dal resto dell’Azerbaijan. Questa exclave azera abitata da circa 460mila persone non ha sbocchi sul mare, condivide un piccolissimo confine con la Turchia e due confini molto più grandi con l’Armenia e l’Iran.
l primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev dovevano incontrarsi giovedì in Spagna, per colloqui mediati da Francia, Germania e Unione europea in cui si doveva aprire la strada per un accordo di pace definitivo. L’incontro però è stato annullato per decisione di Aliyev, che avrebbe voluto che all’incontro partecipasse anche la Turchia (non invitata dagli europei). Baku si è anche lamentata per la posizione di Parigi, che martedì ha annunciato forniture di armamenti a Yerevean, e per la parole di Charles Michel, definite «filo-armene». L’assenza di un accordo di pace rischia di far precipitare la regione in una nuova crisi. La richiesta di Aliyev di un corridoio di trasporto per collegare l’Azerbajan al Nakhchivan attraverso la provincia meridionale armena del Syunik preoccupa Yerevan, che in caso di rifiuto teme un altro attacco militare da parte dell’Azerbaijan.
Baku e Ankara vorrebbe istituire il corridoio di Zangezur per collegarsi all’exclave attraverso la provincia armena di Syunik senza passare per posti di blocco di frontiera. Questo progetto è un obiettivo turco-azero dal 2020, considerato necessario per riunificare il grande mondo turco. Il corridoio non solo collegherebbe la Turchia e l’Azerbaijan, ma creerebbe anche una nuova rotta commerciale strategica tra Europa, Medio Oriente, Asia centrale e Cina. Una rotta turca che aggira completamente la Russia. A ribadire l’importanza strategica del Nakhchivan, lunedì scorso Aliyev e Recep Tayyip Erdogan hanno inaugurato un nuovo gasdotto transfrontaliero che collegherà il Nakhchivan con la regione turca di Igdir.
Yerevan si oppone al corridoio Zangezur poiché lo considera una limitazione della sua sovranità, e utilizzerebbe la forza militare per respingere qualsiasi tentativo turco e azero di realizzarlo contro la sua volontà, come ha minacciato di fare Aliyev nel 2021. Ma come si è visto, Yerevan non ha la forza di contrastare i fatti sul terreno creati militarmente da Baku.
Anche se non è chiaro fino a che punto vuole spingersi l’Azerbaijan, la proposta rischia di isolare l’Armenia dall’Iran, che si oppone all’interruzione delle sue vie di accesso a nord verso la Russia. La provincia del Syunik ospita anche preziose risorse minerarie, tra cui rame e molibdeno, che l’anno scorso hanno fatto incassare a Yerevan ottocentocinquanta milioni di dollari in esportazioni. Nel frattempo, le tensioni tra Armenia e Russia stanno precipitando, aumentando il senso di vulnerabilità del governo armeno. Mosca vorrebbe sfruttare la disperazione armena per sostituire il governo di Pashinyan, democratico, riformista e relativamente filo-occidentale, e sostituirlo con un governo autoritario fedele al Cremlino.
Tuttavia, sebbene gli armeni siano addolorati per la perdita del Nagorno-Karabakh, finora non ci sono segnali che l’angoscia possa tradursi in una rivolta contro Pashinyan. Semmai, a crescere è il risentimento nei confronti dei russi, che invece di intervenire per proteggere la tregua mediata da Vladimir Putin nel 2020 hanno fatto esattamente il contrario, con le forze di peace-keeping russe che hanno agito come intermediari trasmettendo agli armeni l’ultimatum dell’Azerbaijan di arrendersi. La tragedia umanitaria culminata nelle violenze e nell’esodo di queste settimane ha suscitato un enorme risentimento a Yerevan, dove molti sostengono che Mosca li abbia traditi, e che è pronta a farlo di nuovo.
Negli anni passati Europa e Stati Uniti hanno intensificato le relazioni con l’Azerbaijan lasciando al Cremlino il ruolo di mediare la conflittualità della regione, senza intromettersi nelle relazioni tra Russia e Armenia. È stato un errore, che non deve ripetersi. Yerevan non va abbandonata.