Tracce della StoriaLa favolosa complessità di Carlo Ginzburg e la genialità del suo metodo indiziario

Adelphi ripubblica il classico del saggista torinese “Miti emblemi spie” con una nuova parte inedita. Un capolavoro da rileggere: il capitolo che esplora i legami tra il nazismo e la mitologia germanica è particolarmente rilevante alla luce delle recenti risorgenze di posizioni filonaziste

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Quando si entra in una grande cattedrale domina nel visitatore come uno sgomento per una bellezza generale che sovrasta le singole magnificenze che la compongono e che una per una stordirebbero per il loro valore: e così è per il lettore comune che si cali nell’opera di Carlo Ginzburg “Miti emblemi spie” che Adelphi ripubblica con una nuova parte inedita. Libro incredibile per l’accumulo di eruditissime incursioni in ambiti diversi tra loro, dalla letteratura alla storia dall’antropologia alla psicanalisi e dunque la questione che si pone è quella di individuare un filo che leghi il tutto pur senza pretendere, perché sarebbe contraddittorio con il senso dell’opera, di ridurre a uno la complessità della riflessione.

Libro uscito quasi quarant’anni fa con successo, “Spie” era un’opera aperta, un passaggio, un insieme di pennellate di un paesaggio infinito sul quale l’autore sporge i suoi sensi e la sua cultura al fine di indovinare gli oscuri nessi tra la realtà e gli indizi mediante lo studio di discipline diverse e persino lontane. La scoperta della microstoria è resa possibile proprio grazie al metodo indiziario che scandaglia le impronte che l’umano ha lasciato sulla spiaggia del Tempo. Siamo dunque davanti a un metodo non tanto di tipo storiografico – la ricerca delle famose cause, come ci insegnano a scuola – ma che va ben oltre, su su sino al mito, dunque fuori e oltre la Storia.

Di questa miniera ginzburghiana piena di una fittissima rete di connessioni è impossibile dare conto, a meno di non riscrivere il libro di cui si sta parlando, un libro nel quale si parla di Mesopotamia e Buster Keaton, per dare un’idea, passando per centinaia di argomenti e personaggi, sempre alla luce della ricerca degli indizi con metodologia e vorremmo dire con l’istinto del «cacciatore accovacciato nel fango che scruta le tracce della preda» O del detective, ed è per questo che uno dei vertici del triangolo su cui è costruita la cattedrale è Sherlock Holmes, mentre gli altri due sono Giovanni Morelli, lo storico dell’arte che nella seconda metà dell’Ottocento propose un metodo diciamo così pre-positivistico, e Siegmund Freud, un altro che com’è noto indagava i segni nientemeno che della mente umana (e che aveva letto Morelli).

Cosa lega Morelli a Freud ed entrambi a Conan Doyle, l’inventore di Sherlock Holmes? Tracce, spiega Ginzburg: «Sintomi, nel caso di Freud, indizi, nel caso di Sherlock Holmes, segni pittorici, nel caso di Morelli». Tutti e tre, guarda caso, erano medici o come Conan Doyle, appassionati di medicina. Non casualmente: i medici seguono tracce, appunto, come gli uomini primitivi a caccia della preda. Abbiamo scelto, nella cattedrale, tre gioielli, due più evidenti e l’altro più nascosto. Il primo riguarda l’individuazione dei rapporti tra la Il nazismo e il lontano passato mitico della Germania, il tema studiato da George Dumézil, lo storico che analizzò appunto i possibili legami tra l’ideologia del Terzo Reich e la mitologia germanica. È un capitolo di “Spie” scritto decenni fa ma che riletto oggi, alla luce di un preoccupante rigurgito di posizioni filonaziste, fornisce elementi nascosti ma decisivi per la comprensione di quel passaggio storico e le sue ripercussioni su ciò che avvenne dopo.

Il secondo motivo di cui vogliamo brevemente parlare è quello di uno dei nuovi capitoli, “Mise en abyme, l’immagine dentro l’immagine” dove si esplora il più alto modello del racconto nel racconto, la Divina Commedia, partendo dalla famosa distinzione continiana tra il Dante poeta e il Dante personaggio, e di lì si arriva al terzo gioiello, ma questo è nascosto, puramente accennato (ma è proprio questa evanescenza che intriga) ed è la questione di Marcel Proust, scrittore ovviamente tanto amato da Carlo, figlio di Natalia Ginzburg che tradusse per Einaudi il primo volume della Recherche.

«Si può dimostrare agevolmente che il più grande romanzo del nostro tempo è scritto secondo un rigoroso paradigma indiziario», aveva scritto quasi quarant’anni fa, e oggi aggiunge che «il paradigma indiziario è stato in larga misura ispirato da Proust». È un’intuizione formidabile che per nostra sfortuna Carlo Ginzburg lascia cadere così, alla fine della postfazione al volume. È una traccia, un indizio anch’esso, una suggestione che coglie il lettore mentre si aggira nei meandri della buia cattedrale che il grande erudito cerca qua e là di illuminare con la forza della conoscenza.

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