Dilatazione abusivaOrmai qui è tutto un «evento»

Nel linguaggio contemporaneo una sola parola ha fagocitato ogni tipo di manifestazione, che si tratti di una grande competizione sportiva, di una mostra, di un concerto o di qualsiasi altro appuntamento che attira l’attenzione del pubblico

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«Con l’agile speme», nel tambureggiante coro che chiude il terzo atto dell’Adelchi, il volgo (italico) disperso già si immagina la sconfitta dei Longobardi e la fine della schiavitù: «precorre l’evento», scrive Manzoni. Nell’Italia dei nostri giorni, invece, lo rincorre, lo segue, lo moltiplica: e così cade in un nuovo servaggio. La schiavitù dell’evento. Oggigiorno tutto può essere – e di fatto ci viene – presentato come evento. È una dilatazione abnorme, a tratti mostruosa, spesso ridicola, il più delle volte abusiva.

 “Evento” (dal latino eventus, sostantivo derivato da evenire, venir fuori, avverarsi, accadere) significa essenzialmente – a parte le accezioni nel campo del diritto, della fisica, nel calcolo delle probabilità – «fatto già accaduto o che può accadere, avvenimento di una certa importanza» (Nuovo De Mauro). Soprattutto l’ultima accezione, che lo connota come un fatto per qualche ragione degno di essere ricordato, è quella che tende a prevalere nell’uso. 

Non tutti i fatti sono eventi: l’histoire événementielle in opposizione alla quale la scuola delle Annales di Marc Bloc e Lucien Febvre definì il suo campo d’indagine è precisamente la storia degli avvenimenti politici e militari salienti, a cui la nuova storiografia contrapponeva la lunga durata dei meno rumorosi processi sociali che ne sono alla base. Oggetto canonico della storia evenemenziale sono le guerre. 

È in seguito a un avvenimento di grande rilevanza come la vittoria su Pirro nel 275 avanti Cristo, premessa dell’egemonia sull’intera Magna Grecia, che i Romani cambiarono il nome alla città nei cui pressi si era combattuta la battaglia decisiva, così che Maleventum (rietimologizzazione latina dell’antico toponimo greco) divenne Beneventum.

Ma naturalmente non è necessario affrontare una cruenta tenzone per poter parlare di un evento come di un «grande evento». Il modello, in questo caso, è l’inglese great event, «in origine con riferimento a importanti competizioni sportive, e oggi esteso a qualunque manifestazione o spettacolo che attiri il pubblico» (vocabolario Treccani).

Abbiamo così la «mostra evento», il «concerto evento», il «tour evento», la «performance evento» (non proprio del secolo, ma insomma…); «eventualmente» può essere evento anche l’incontro pubblico con il premio Nobel, con lo scrittore bestseller, con l’illustre scienziato o con il comunque noto o in qualche modo esemplare personaggio, testimone di qualcosa, sopravvissuto, reduce, pentito, guarito, disintossicato, riabilitato, in un climax inverso che regressivamente dissolve la grandezza e con essa l’evento stesso.

Possono essere eventi il ricevimento a inviti per la prima della nuova stagione teatrale ma anche la festicciola per la riapertura della vecchia sala d’essai, l’inaugurazione del mega centro commerciale ma anche quella della piccola boutique dell’angolo. Nella scorsa primavera è stato presentato come «tour evento» quello che ha portato le firme di un quotidiano nazionale a incontrare i lettori sul territorio. È annunciato come «nuovo film-evento di», in programma tra un mese nei cinema per tre-giorni-tre, il nuovo film di Walter Veltroni i cui precedenti cinematografici, per la verità, non sono mai stati eventi.

Addirittura – cortocircuito di involontaria ironia – un paio di anni fa era pubblicizzata come evento la presentazione di un libro di Gianrico Carofiglio intitolato La nuova manomissione delle parole (dalla scheda editoriale: «L’uso delle parole può produrre trasformazioni drastiche della realtà. Attraverso il linguaggio si esercita il potere della manipolazione e della mistificazione. Per questo le parole devono tornare ad aderire alle cose»).

Tanto turgore connotativo, tuttavia, può incorrere in un ribaltamento: all’estremo opposto dell’uso, infatti, assistiamo a una neutralizzazione del vocabolo che non solo lo svuota della sua carica enfatica ma altresì della sua pregnanza, confinandolo nella funzione di significante sufficientemente generico da poter rinviare a una varietà eterogenea di significati.

Per esempio: una benemerita associazione culturale organizza un ciclo che comprende dibattiti, conferenze, proiezioni, un paio di mostre, magari anche qualche ospitata musicale; come chiamare tutti questi eventi con un nome unificante, un po’ meno banale di «appuntamenti»?

Appunto, eventi: «La stagione si apre con il concerto di…; i prossimi eventi saranno il seminario su…, quindi la proiezione della pellicola…, la conferenza del professor…». Oppure, guardiamo il sito di un qualsiasi museo o sede espositiva: nella homepage troveremo – oltre alle mostre in corso e a quelle passate e future, alle «info», ai contatti e all’area press – una sezione «eventi», che non sono né pretendono di essere «grandi eventi», ma soltanto tutto ciò che esorbita dalle mostre – conferenze, concerti, spettacoli, laboratori didattici, iniziative speciali.

È forse in questo estremo depotenziamento il contrappasso che la parola evento deve subire per le sue intemperanze megalomaniache? Nel dubbio, per evitarle nuove pene, provare a usarla con più cautela?

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