Mi ritorni in menteIl nuovo romanzo di Lisa Ginzburg racconta l’inaccessibilità dell’infanzia

"Una piuma nascosta" (Rizzoli) è una toccante esplorazione dell'adozione e del suo impatto sull’equilibrio familiare. Ma è anche una indagine sulle sfide dell'amore in mezzo agli impegni e alle ambizioni della vita

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È un luogo inaccessibile, l’infanzia. Il seme da cui tutto cresce impossibile da decifrare. È un codice di cui andremo alla continua ricerca, per capire, ricostruire, tentando di rincasare verso le origini oppure scegliendo la strada opposta. Lisa Ginzburg torna in libreria con “Una piuma nascosta” (Rizzoli) e ci consegna una storia che è pronta ad afferrare tutte le stagioni della vita. A partire, dunque, dall’inizio. Ricordi che, a posteriori, chiariscono i piccoli e frequenti enigmi in cui da bambini si osserva tutto senza capire. Ricordi che, in virtù di questa distanza dalle cose dei grandi, hanno reso indelebili solo le immagini. Come la faccia triste della signora Enrica; l’Avvocato, suo marito, che le apre lo sportello della macchina per lasciarla entrare; l’allontanarsi scricchiolante dei due lungo il sentiero di ghiaia.

Tan, il ragazzino che entra a far parte della famiglia dei Manera, per cui i genitori di Rosa lavorano come custodi, è stato adottato attraverso un esasperante ginepraio di pratiche e di colloqui, presentazione di documenti, atti protocollati, fra il Consolato della Moldavia e il Tribunale dei minori di Firenze. Questo Rosa, che all’epoca ha undici anni, non lo sa. Eppure potrà portare con sé, quando vorrà tornarci col pensiero, lo stupore che la vista di quel ragazzino, che lei aveva immaginato neonato, ha prodotto non appena lui le ha puntato addosso i suoi occhi torvi.

Saranno i giochi, il terreno d’incontro su cui i silenzi prolungati di Tan, quel fare scorbutico e a volte aggressivo, si trasformeranno nelle radici d’un rapporto resistente al tempo e ai cambiamenti. Quali fantasmi si annodino nel passato di un bambino così ombroso e provocatorio, i genitori adottivi non lo sanno, e non lo sa neanche Rosa. Nessuno lo sa. Ma lei, Rosa, sente di avere un ruolo speciale.

Nella difficoltà con cui i Manera si rapportano a un figlio che avrebbero desiderato forse più facile e più malleabile, sarà Rosa, a soli undici anni, a tramutarsi in un ponte fra il vecchio mondo pieno di mistero e il nuovo.

L’abilità di Ginzburg sta nel restituirci la dolcezza delle proiezioni di una bambina, senza scosse nella missione che si è assegnata, salvare e proteggere Tan dall’estraneità che tutto avvolge, e nel contempo lasciar emergere i tormenti di Enrica. La donna che un figlio lo desiderava da anni, che il vuoto di un desiderio così pulsante ma disatteso lo ha subìto ogni giorno, la madre mancata che durante la notte ha pianto di nascosto da suo marito, fino a convincerlo ad adottare.

E tuttavia, la rabbia di Tan è ingestibile. Ci sono i capricci, i suoi rifiuti, la violenza con cui si sottrae a qualsiasi proposta, ogni offerta che i Manera avanzano nella speranza d’un avvicinamento.

Una parabola di piccoli passi e prodigiosi traguardi, a cui Ginzburg ci introduce nell’ottica di due obiettivi: lo spirito di Rosa, animato dalla romantica fede che il sostegno dato a Tan servirà a renderla essenziale ai suoi occhi, e quelli di Enrica, la madre adottiva, costretta a muoversi su una lastra di ghiaccio nell’incubo di non sbagliare. Una configurazione a cui si aggiunge Giovanni, il padre che padre non riesce a esserlo, non fino in fondo, e che scappa, rifugiandosi sempre più spesso a Firenze dove dorme su un divano letto comprato da Ikea pur di non tornare nella grande tenuta immersa nel verde.

È una storia di solitudini che si intrecciano, quella di Ginzburg. Ciascuna diversa dalle altre, ciascuna uguale nell’improntitudine davanti alle sfide che il destino ci consegna e nel dolore. Fino allo strappo: il giorno in cui per Rosa e Tan arriva il momento di allontanarsi. Non esiste margine alle separazioni che ogni vita impone, un equilibrio per sempre precario a cui segue la ricerca di ulteriori assetti da costruire, con fatica, o per alcuni con la stessa inossidabile fiducia di un tempo.

Nel romanzo, lo strappo diventa anche narrativo perché da quella complicità che colma le distanze, di cui sono capaci solo i bambini, in una naturale scintilla che si produce immediata, passiamo alla vita adulta. Rosa è un medico, ormai. E anzi, un dirigente: il chirurgo oftalmico più giovane nella storia del suo ospedale. Impegni e responsabilità al posto dei giochi, dei sorrisi o dei bronci sotto le querce della tenuta. Il distacco naturale dai genitori. In parte dalle proprie origini. Ciò a cui ogni soglia verso il tempo che avanza sembra imporre.

E l’amore? I sogni di affermazione a volte si ingrandiscono assottigliando l’orizzonte dove è possibile trovare un posto per i sentimenti: «L’amore è una questione di spazio. Spazio da offrire, spazio vuoto per poter ricevere. In te quello spazio manca», sentenzia un’amica di Rosa.

La solitudine iniziale, data da una ressa di cause come la maternità mancata, l’adozione, un passato oscuro con tutto il carico dei suoi fantasmi, le incomprensioni o il distacco, si tramuta ora in una solitudine più sorda, a cui, nella frenesia del lavoro, ma anche nel brusio delle legittime ambizioni, si può finire per affezionarsi. Oppure no.

Potrebbe capitare che ciò che è stato, riposto poi negli anni nell’angolo dei ricordi, torni a comporre il presente. Per un breve istante o per un futuro inatteso: non è questo ciò che importa. Si tratta di una possibilità da cogliere in un solo soffio, dato che tutto sfugge, nulla resta ma niente scompare per sempre. E dunque serve attenzione, sottolinea Ginzburg. Che, come il passato, ha la consistenza anch’essa leggera e volatile di una piuma.

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