La donna forte di Copenhagen sembra arrivare da un altro pianeta rispetto a Jacinda Ardern, Nicola Sturgeon o Elly Schlein. Eppure è l’unica di sinistra a essere stata riconfermata dagli elettori e c’è chi la vedrebbe bene alla guida della Nato. In un periodo in cui la sinistra di tutto il pianeta è impelagata in un confronto quasi esistenziale con gli arci-conservatori ed è spesso costretta a scegliere fra il radicalismo e l’irrilevanza, mancano figure di riferimento. Ci sarebbe Keir Starmer, che però sarà chiamato alla prova del fuoco fra circa un anno, o Pedro Sanchez, ora indaffarato con il pallottoliere per contare i seggi che gli mancano per assicurarsi un nuovo mandato alla Moncloa.
È passato un anno da quando le telecamere delle tv danesi in una diretta thrilling durata più del previsto, avevano indugiato sui volti increduli dei militanti al quartier generale Socialdemocratico. All’ultimo voto dell’ultima sezione, era scattato il seggio numero novanta, quello che avrebbe garantito a Mette Frederiksen di poter continuare a governare il suo paese per altri quattro anni con una maggioranza di sinistra.
Alla fine, la premier danese, così abituata a fare di testa sua, ha imposto esattamente ciò che aveva promesso in campagna elettorale e che le aveva permesso di vincere il voto: governerò con le larghe intese. Provateci in Italia a farvi rieleggere mettendo sul piatto una proposta simile.
Un anno fa, i sondaggi dicevano che Frederiksen avrebbe portato al peggior risultato dell’ultimo secolo, invece conseguì il migliore dal 2001 a oggi. Passano dodici mesi, in mezzo ci sono le lunghe trattative per la formazione del governo, l’accordo con i Liberali e i Moderati, l’inflazione che galoppa, le indagini sul sabotaggio al gasdotto nel Baltico e l’abolizione della Festa della Preghiera, lo Store Bededag, contestata da chiesa e sindacati con una raccolta che ha raggiunto quasi mezzo milione di firme.
Tempi duri, verrebbe da dire. I tempi duri richiedono spesso uomini forti. E donne forti. Così, per una Nicola Sturgeon impantanata negli scandali, la donna forte di Copenhagen si abitua a farsi scivolare addosso critiche, errori e paure. Lo aveva già fatto nel 2020, quando nel discorso di apertura del parlamento danese, il primo in piena pandemia, attaccò direttamente i dogmi sui quali si era fondata una parte della dottrina politica moderna: «Decadi di deregolamentazione, iper-consumismo e una fede cieca nelle forze del mercato. Questa crisi è diversa, la nostra resilienza è più grande».
La resilienza sua è stata davvero più grande quando, nel 2022, si è dovuta dimettere dopo che era emersa la sua responsabilità nell’ordinare illegalmente lo sterminio dei visoni d’allevamento, ritenuti erroneamente portatori di Covid. Lì, l’enorme portata dello scandalo dal punto di vista economico (per gli allevatori) e morale (per gli animalisti) si è infranta contro la volontà popolare, tanto che i Radicali, il partito alleato che aveva causato la fine anticipata del suo governo proprio in virtù del rischio impeachment, sono stati profondamente ridimensionati.
Il manifesto politico che Mette Frederiksen ha esposto all’Europa, ancora prima della sua vittoria elettorale del 2019, è datato dicembre 2018, qualche mese prima delle ultime elezioni europee: «La socialdemocrazia è esposta alle grandi sfide del nostro tempo come le diseguaglianze, il cambiamento climatico e la questione dei migranti. Molte persone hanno perso la fiducia in noi e abbiamo il dovere di ricostruirla» aveva esordito. Il suo, però, non era stato un discorso da “terza via”: le sue posizioni sull’argomento, sorprendentemente, sono quelle di una figura quasi radicale. «Abbiamo fallito nel rispettare il contratto sociale che caratterizza il modello di società che desideriamo. Il movimento di persone e capitali nell’UE è una conquista, ma ha generato il fenomeno del dumping sociale e dopo la crisi del 2008 abbiamo il dovere di imporre vincoli alle banche e ai mercati».
Sulla questione migranti, la sua linea è distante da quella espressa dal Nazareno: «Da una parte abbiamo un enorme numero di rifugiati, dall’altra tanti giovani, specialmente nordafricani, desiderosi di raggiungere l’Europa per una vita migliore. Sappiamo di non potere aiutare tutti qui in Europa, per cui dobbiamo unire le nostre forze e fornire uno sviluppo economico all’Africa senza precedenti» sintetizzava Frederiksen. «Queste migrazioni pongono delle sfide: ci serve una maggiore integrazione, perché abbiamo bisogno di una coesione sociale che possa essere mantenuta del tempo». Una posizione che riflette con toni più moderati quella che fu dell’ex leader della sinistra radicale, Villy Søvndal, che invitò gli estremisti di Hizb ut Tahrir a lasciare il paese e «andare all’inferno».
Sono aspetti su cui, però, Frederiksen dovrà andare con estrema cautela, anche perché l’idea di allearsi con centristi e liberali durante questa legislatura, è legata a un sottile calcolo di convenienza per gli anni a venire. Consapevole che la grande coalizione le sarebbe costata soprattutto consensi a sinistra, Mette Frederiksen scommette sulla dispersione dei voti a destra per riconfermarsi nel 2026 con una nuova coalizione, questa volta a trazione più radicale.
Per ora, la strategia sembra darle ragione: i voti persi dai Socialdemocratici stanno andando in gran parte verso la Sinistra Popolare e l’Alleanza Rosso-Verde, mentre gli alleati liberali della Venstre (ora alla ricerca del sostituto del suo ex segretario, Jakob Elleman Jensen) e i Moderati stanno perdendo consensi in favore della destra radicale, al momento piuttosto frammentata. Ma è veramente una conferma al governo di Copenhagen, quella che Mette Frederiksen cerca? Nei mesi scorsi erano state numerose le voci sul suo imminente incarico al vertice della Nato, ruolo ora ricoperto dall’ex premier norvegese Jens Stoltenberg che ha prolungato il suo mandato fino al 1° ottobre 2024.
La scadenza sembra coincidere perfettamente con la fine del quinquennio di Ursula Von der Leyen, ma per la presidente della Commissione europea sarà decisivo l’immediato futuro, durante il quale si ritroverà a guidare l’Unione Europea nel mezzo dello stallo nella guerra in Ucraina e con il nuovo conflitto che infiamma in Medio Oriente. Fuori dai giochi l’estone Kaja Kallas, colpita dagli scandali in patria, il ruolo di predestinata a essere prima donna al vertice dell’alleanza atlantica potrebbe toccare alla premier danese.
Sulle due questioni da dentro o fuori di questo periodo, Frederiksen ha messo in chiaro da che parte intende stare: dall’inizio del conflitto ha visitato l’Ucraina per tre volte, mentre immediatamente dopo gli attacchi di Hamas in Israele, ha visitato l’ambasciata israeliana, rigettando furiosamente la proposta di un giornalista che l’aveva invitata a fare altrettanto nei confronti della missione diplomatica palestinese a Copenhagen. «Tutti abbiamo profonda simpatia per le vittime civili. Che vengano perse delle vite e dei bambini siano coinvolti è doloroso, indipendentemente dall’origine delle vittime. Ma paragonare un’organizzazione terroristica a un paese democratico, che difende se stesso, è una premessa che non intendo accettare», ha riferito Frederiksen durante un’intervista con il canale TV2.
Questione palestinese a parte, Mette Frederiksen ha fatto scuola anche fra i vicini di casa: i Socialdemocratici svedesi, reduci dalla sconfitta del settembre dello scorso anno a dispetto di un consolidamento del proprio elettorato, sono guidati dall’ex premier Magdalena Andersson, che ha ribadito la necessità di intervenire a fronte delle violenze delle gang nelle periferie (andando a muso duro contro la comunità somala) e, quando ancora era alla guida del paese, si è messa l’elmetto in testa per andare a sostenere Kyjiv contro l’orco russo.