Deterrenza sbriciolataA Israele non basta la (legittima) forza militare per difendersi da Hamas

L’ex ministro dell’Interno e fondatore di Med-Or, Marco Minniti, dice a Linkiesta che il 7 ottobre segna uno spartiacque per lo Stato ebraico: ora sa che non può più fare affidamento solo sul suo esercito. «Per garantirsi la sicurezza deve costruire relazioni diplomatiche più forti», spiega

AP/Lapresse

Le notizie arrivano da Israele in rapida successione, mentre stiamo per iniziare l’intervista con Marco Minniti, presidente e fondatore di Med-Or, prestigioso istituto di analisi geopolitica nella cerchia di Leonardo: i missili di Hamas lanciati nuovamente da Gaza, la tregua che salta, Israele che contrattacca, il lavorio dei mediatori che intanto continua. Tutto in una situazione di forte instabilità.

Cosa succede adesso?
Interrompendo unilateralmente una tregua che poteva consolidarsi, Hamas si è assunta una drammatica responsabilità, confermando allo stesso tempo quanto Biden aveva detto: Hamas vuole la guerra. Oltretutto Hamas, che con le sue scelte punta a un conflitto estremamente radicalizzato, ottiene anche il paradosso di rendere più forte l’estrema destra israeliana. Siamo nel segno di una complessità che ha reso ancora più evidente come il percorso intrapreso di una tregua umanitaria con la liberazione reciproca di ostaggi e prigionieri rimanga in ogni caso una scelta difficilissima da abbandonare.

Fonti di Doha riferiscono in effetti che i negoziati per il rilascio degli ostaggi in mano ad Hamas continuano, con Egitto e Qatar che mediano…
E resta anche il messaggio che Blinken (Segretario di Stato americano) ha portato in Israele. Una road map messa in campo dagli Stati Uniti fondata su tre punti: uno, la questione ostaggi rimane aperta ma deve essere portata a compimento. Due, una ripresa dei combattimenti non può non tenere conto della salvaguardia dei civili. Tre, è necessario pensare a un ruolo per un’Autorità nazionale palestinese rinnovata.

C’è però il problema degli sfollati, che resta lì come una miccia.
È un elemento che pesa come un macigno: dopo che Israele ha preso il controllo del nord di Gaza l’idea che le operazioni militari possano svilupparsi a sud di Gaza crea un gigantesco problema umanitario. Parliamo di un milione e settecentomila sfollati che si sono spostati da nord a sud. Se riprendono le operazioni militari dopo la tregua quelle persone dove vanno?

La prima opzione sarebbe a sud, in Egitto, che però non ne vorrà sapere. Giusto?
L’Egitto ha detto chiaramente che il Sinai è la linea rossa, e spingere gli sfollati verso il confine egiziano verrebbe considerato un gesto di drammatica ostilità. Anche se l’Egitto ha costruito negli ultimi anni un rapporto con Hamas ed è stato il mediatore dei suoi rapporti con Israele, sappiamo che il generale al-Sisi va al potere contro i Fratelli Musulmani, quindi porta con se una radicale diffidenza verso l’estremismo islamico, di cui Hamas è parte. Tra l’altro in Sinai agisce una succursale di Islamic State-Sinai Province, ramo del gruppo militante Stato Islamico, contro cui Il Cairo è impegnato in combattimenti particolarmente aspri. L’Egitto non può permettersi un’espressione del radicalismo musulmano che entra nei suoi confini e che insieme a una massa enorme di sfollati palestinesi entra in contatto con Islamic State. Inoltre l’Egitto sta ospitando trecentomila profughi provenienti dal Sudan, dove ci siamo dimenticati che c’è una guerra civile in corso. E ancora: in Libia ci sono due milioni di lavoratori egiziani. Se la situazione dovesse economicamente collassare sotto la spinta dei drammatici eventi climatici in Cirenaica, quei due milioni dovrebbero rientrare. Una tempesta perfetta.

Allo stesso tempo nessun Paese limitrofo, e neanche la Giordania, vuole pensare a nuovi insediamenti di coloni israeliani a Gaza e nella Cisgiordania.
Punto delicato. La spinta degli sfollati non può ricadere neanche sulla Giordania, perché avrebbe effetti destabilizzanti anche su quel Paese. Però la componente di estrema destra del governo Netanyahu evoca i coloni. Non casualmente Netanyahu ha appena detto che Israele non rinuncerà ad armare i civili. Cosa che è già iniziata dopo l’attacco del 7 ottobre e ha creato una diffidenza notevole nelle forze armate israeliane, che sono fondate sul volontariato. Non ci dimentichiamo che dopo la riforma della giustizia del governo Netanyahu migliaia di riservisti avevano dichiarato che non avrebbero risposto alla chiamata alle armi. È la rottura di un vincolo profondissimo. E infatti l’Intelligence aveva ammonito il governo dicendo: attenzione, perché le divisioni politiche ci indeboliscono di fronte al nemico.

Secondo il New York Times, lo Shin Bet, l’agenzia di intelligence per gli affari interni, era entrato in possesso un anno fa del piano di Hamas, ma lo aveva giudicato troppo ambizioso e troppo difficile da realizzare…
È così, e prima del 7 ottobre c’era anche stato un allarme lanciato dalle sentinelle, quelle donne militari chiamate a vigilare sui movimenti al di là del muro, che avevano segnalato un iperattivismo tra i palestinesi, perché vedevano che non si trattava di semplici esercitazioni, ma potevano sembrare mirate a un attacco. E l’Intelligence aveva notato che tra le persone che partecipavano a quelle finte esercitazioni c’erano insolitamente alti ranghi di Hamas. I fatti portavano alla preparazione di qualcosa di grosso, però c’è stata una sottovalutazione.

L’evidenza negata da una presunzione di sicurezza…
La storia è fatta di clamorose negazioni dell’evidenza, sindrome di uno slogan adottato dal maggio francese: siate realisti pensate l’impossibile. Stalin, informato da una spia impeccabile dell’imminente attacco nazista all’Unione Sovietica, non ci crede e viene colto di sorpresa. Lo stesso accade l’11 settembre 2001, quando il sistema di sicurezza degli Stati Uniti, cioè il top del top, non crede ai segnali di rischio terroristico che arrivavano considerando irrealistico l’attacco pensato da Al Qaeda. Il 7 ottobre 2023 è questo: c’è un muro che appare invalicabile, telecamere, intercettazioni telefoniche, tecnologie di cui l’Intelligence israeliana si fida moltissimo. Ma sottovaluta il fattore umano.

Cioè pensa che le tecnologie siano più importanti delle sentinelle?
Sentinelle che dicono: attenzione sta succedendo qualcosa. Il fattore umano e le fonti sono indispensabili, un infiltrato dentro Hamas vale molto più di cento telecamere lungo il muro.

A conferma, inoltre, che non può essere lasciato tutto alla riposta militare.
Fermo restando che da Israele è arrivata una risposta militare legittima – e su questo non c’è dubbio alcuno perché è stato attaccato – ecco il problema di fondo. Il 7 ottobre ha fatto precipitare drammaticamente in Israele l’idea della deterrenza, per cui uno Stato forte militarmente può sempre difendersi da chi lo attacca. Quell’idea è stata sbriciolata.

Un’idea che era perfino un elemento di coesione di un popolo. Ma se un’idea si sbriciola, un’altra ne prenderà il posto.
Adesso bisogna aiutare Israele a comprendere che nel terzo millennio, in questo mondo caotico, a-polare, senza blocchi di riferimento, con grandi potenze ma senza che nessuna sia in grado di prevalere sulle altre, la deterrenza non può essere soltanto garantita dalla forza militare. Bensì, anche, dalla capacità di relazioni diplomatiche.

Infatti Israele stava lavorando anche in questa direzione. Gli accordi di Abramo erano su questa sponda. Hamas aveva bisogno di farli saltare…
Hamas ha attaccato per diverse ragioni: la prima, in ipotesi astratta, era quella di cancellare Israele; ma poi ci sono altre due ragioni, più concrete. Uno: far saltare gli accordi di Abramo tra Israele e Arabia Saudita, una minaccia mortale per Hamas che rischiava di trovarsi circondata da una sorta di abbraccio dei Paesi arabi moderati in rapporto diretto con Israele: Egitto, Marocco, Emirati Arabi, Arabia Saudita. Due: Hamas doveva rendere evidente che l’Autorità Nazionale per la Palestina non contava più nulla, non solo perché sconfitta elettoralmente, ma anche perché non aveva più alcun ruolo, visto che il cuore del contrasto ad Israele era nelle mani dell’asse del terrorismo, formato da Hamas, Hezbollah, Houthi nello Yemen e le Brigate Sciite in Iraq. Tutti in strettissimo rapporto con l’Iran. Ecco perché Israele, per la sua sicurezza, deve passare dalla deterrenza militare alla riconquista di un rapporto con la comunità internazionale e con i Paesi arabi moderati, via non semplice ma ineludibile.

Il Qatar, che ospita il leader di Hamas, sta intanto svolgendo un ruolo molto attivo sul fronte dei negoziati.
Questa mattina, a margine della conferenza sul clima che si tiene negli Emirati Arabi Uniti, in un incontro definito “storico” dai media di Tel Aviv, il presidente israeliano Herzog e l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani si sono incontrati a lungo e si sono fatti fotografare mentre si stringevano la mano. Il Qatar è l’amico necessario. Negli anni si è ritagliato lo spazio di essere quello che dialoga con i gruppi più borderline del mondo, e tuttavia sapendo sempre che quei rapporti sarebbero un giorno tornati utili alla comunità internazionale. Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano definito il Qatar: il migliore alleato tra quelli dei paesi non Nato.

In questo scenario c’è anche la guerra tra Russia e Ucraina. È diventata una notizia secondaria, e il comandante generale delle forze ucraine ha detto che ci attende uno stallo prolungato.
La guerra nel cuore dell’Europa è la crisi del vecchio ordine mondiale. Mentre Putin si avvantaggia di tutto ciò che destabilizza il mondo, come l’attacco di Hamas, il non successo della controffensiva ucraina, insieme all’arrivo tempestoso dell’inverno, comporteranno una lunga stasi del fronte bellico, diciamo fino alla prossima primavera inoltrata. Ma l’idea di un prolungato stallo obbliga anche l’Ucraina a pensare una strategia di soluzione del conflitto.

Sempre ripartendo da un percorso di cessate il fuoco.
Sì, e poi di pace duratura sul fronte est dell’Europa e a sud dell’Europa, nel Mediterraneo allargato, riconoscendo che un nuovo ordine mondiale non può essere più garantito soltanto dagli antichi protagonisti, ma deve coinvolgere il sud del pianeta, l’Africa, un pezzo dell’Asia, il medio oriente allargato. La geopolitica sta cambiando ed è centrale. Pensiamo alla Turchia: Erdogan è andato alle elezioni con l’inflazione all’85 per cento. E ha rivinto, dicendo: è vero, abbiamo condizioni economiche difficili, ma io faccio diventare la Turchia un protagonista nel mondo e questo porterà benefici. Solitamente un paese con l’inflazione all’85 per cento collassa, perché nel caso della Turchia non è successo? Perché la finanza mondiale non l’ha toccata? Perché il ruolo geopolitico della Turchia è talmente importante che il mondo non può permettersi che collassi.

La rivincita della geopolitica sugli algoritmi…
Sì, strepitosa. Se tu sei collocato geopoliticamente tutto il resto è secondario. E intanto è cresciuto un nuovo imponente schieramento di paesi non allineati, che ha due sigle: i Brics e la Sco, la Shanghai Cooperation Organization di cui fanno parte Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan  e Uzbekistan. Oggi hanno la fila per entrare in quei forum, c’è una voglia di non allineamento pazzesca perché i nuovi protagonisti non accettano di essere rappresentati da altri ma vogliono contare direttamente. Dopodiché è chiaro che il ruolo degli Stati Uniti non verrà mai cancellato, restano la prima potenza economica e militare del pianeta. E tuttavia da soli non bastano più. E infine ci sono la Cina e l’India. Notiamo una cosa: i cinesi hanno fatto ultimamente una grande propaganda delle Flying tigers, le tigri volanti, cioè i reparti americani che nella seconda guerra mondiale hanno affiancato i cinesi per combattere i giapponesi. Perché? La Cina sa perfettamente che gli interessi strategici di Cina e Russia in questo momento sono divaricati. Mentre la Russia ha interesse alla destabilizzazione, perché Putin se ne avvantaggia, la Cina ha l’interesse contrario: più si destabilizza il mondo e meno cresce l’economia cinese. Quanto all’India, di cui nessuno potrà fare a meno, è diventata la prima potenza demografica. Ecco una notizia: in questo momento per la prima volta nella storia, gli indiani hanno superato i cinesi tra coloro che hanno frequentato con esiti positivi i master di secondo livello delle università americane. E gli indiani hanno avuto nel 2022 cento miliardi di dollari di rimesse da emigranti che vivono in giro per il mondo. Cento miliardi solo di rimesse: sono tre leggi finanziarie italiane.

Ci resta l’Europa.
L’Europa ha scelto di non contare, e questo è un problema per gli equilibri complessivi del pianeta. E dico ha scelto perché sono prudente. Però nei momenti più drammatici, le situazioni si presentano come rischi e come opportunità. Il Mediterraneo è il punto di congiunzione tra l’occidente e il sud del mondo, e l’Italia è al centro del Mediterraneo. Abbiamo un’occasione per utilizzare la nostra collocazione geostrategica centrale e fare da apripista, portando l’Europa a occuparsi attivamente del Mediterraneo allargato. Per fare questo l’Italia può contare anche sulla sua Intelligence, che ha un know-how nel Mediterraneo impareggiabile per qualunque altro paese europeo, ad eccezione, forse, della Francia, che tuttavia ha sulle spalle il peso del collasso della sua politica in Africa. Come ha detto Macron: la Françafrique è finita per sempre.

Insomma. In questo scenario la scomparsa di Henry Kissinger sembra quasi un simbolo…
È il massimo del simbolismo possibile, è la fine di un protagonista della politica estera del pianeta, che, quando era veramente difficile, ha saputo costruire un dialogo prima con l’Unione sovietica e poi con la Cina. Idee che restano straordinariamente utili in questo momento.

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