Ci vuole orecchioCos’è l’ipoacusia e perché sarà sempre più diffusa in questa era del rumore

In "L’emozione del suono" (Egea), Valentina Fornari racconta il problema della riduzione o perdita del senso dell'udito. Un fenomeno destinato ad aumentare, anche tra i più giovani

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A volte confusi nel parlare comune, i termini sordità e ipoacusia non hanno lo stesso significato. Mentre la sordità, o cofosi (dal greco κοφοςις [kṓphōsis]), è la condizione di perdita bilaterale completa dell’udito, l’ipoacusia (dal greco ιπο [ipo] «riduzione» e ἄκουσις [ákoysis] «percezione») indica la diminuzione uni o bilaterale della capacità uditiva, congenita o acquisita. Si riconoscono differenti gradi di ipoacusia, da lieve a profonda, in base alla perdita stessa, a partire da una soglia di riduzione pari a 20 dB in entrambe le orecchie. I gradi di ipoacusia, secondo la classificazione dell’OMS, sono determinati sulla base delle misurazioni audiometriche rilevate in un test con audiometro (strumento per indagare la capacità uditiva in ambito medicale, industriale e nella ricerca psicoacustica) il cui esito è espresso in forma di grafico, l’audiogramma, che illustra l’intensità minima in dB che un individuo è in grado di recepire per diverse frequenze di suono.

(…) Avere un deficit uditivo non significa semplicemente non sentire bene. Già trent’anni fa gli studi scientifici internazionali sulle ipoacusie hanno evidenziato una correlazione tra perdite uditive e rischi di demenza, connessa alla riduzione della capacità cognitiva, in misura da lieve a gravemente deteriorata (probabilità più che triplicata). All’ipoacusia crescente si accompagna anche un maggior rischio di cadute riconducibili alla perdita di controllo dell’equilibrio, gli effetti delle quali sono potenzialmente invalidanti in modo grave.

La perdita uditiva è inoltre presente in tre su quattro delle persone affette da deficit cognitivo. Se non trattate, le ipoacusie possono quindi essere associate all’insorgenza di condizioni patologiche croniche, dal costo individuale e sociale elevatissimo. Sentire meno porta all’isolamento sociale e, in un circolo vizioso, la solitudine è di per sé fattore di rischio per i disturbi cognitivi.

L’uomo è animale sociale e l’interazione mantiene attive le capacità cognitive; la stessa interazione diventa inoltre uno strumento di controllo di questo tipo di abilità, dando tempestivi segnali di allarme in caso di variazioni. In breve, attraverso le relazioni, che dipendono dalle capacità cognitive, si abilita il grado di mantenimento delle capacità cognitive stesse.

Il cervello non funziona a compartimenti stagni, quindi il suono non afferisce soltanto alla corteccia uditiva del lobo temporale ma, come è stato rilevato in test effettuati con risonanza magnetica funzionale, attiva una serie di collegamenti tra zone cerebrali diverse. Per questa ragione lo stimolo uditivo è solo una delle componenti – e non la principale – nel processo di comprensione del linguaggio.

In pratica il cervello attiva meccanismi di compensazione e normalizzazione per ovviare a carenze in qualche funzionalità. Nei soggetti ipoacusici le risonanze magnetiche hanno evidenziato una riduzione del volume della corteccia cerebrale uditiva primaria collocata nel lobo temporale e contemporaneamente un’atrofia del volume cerebrale complessivo di aree diverse, a dimostrazione dell’aumento del lavoro cognitivo necessario alla comprensione, che genera affaticamento e può sottrarre risorse impiegate in altre funzioni.

Il maggiore impegno dedicato all’ascolto comporta dunque minore attenzione prestata ad altre attività, come la concentrazione, la memoria o la capacità di pianificazione, che di conseguenza risultano inevitabilmente ridotte. Nel caso in cui una persona che soffre di ipoacusia adotti meccanismi compensativi, indossando per esempio apparecchi acustici, il sovraccarico di lavoro a cui è sottoposto il cervello si riduce e la condizione è assimilabile a quella di un individuo senza difetti.

In sostanza, viene ridotto l’impatto di uno dei fattori alla base della degenerazione cognitiva e di conseguenza il rischio di incorrere in demenze è paragonabile a quello dei soggetti normoudenti. Queste considerazioni sono sufficienti ad affermare l’opportunità – o per meglio dire la necessità – di intervenire tempestivamente in caso di ipoacusie. In effetti, il rimedio per contrastare i gravi rischi esiste, è noto ed è semplice. Occorre però abbattere qualche barriera.

Il primo passo è il riconoscimento del problema. L’incidenza relativamente contenuta della sola componente uditiva nella comprensione e quindi nell’attivazione delle relazioni sociali, se da un lato consente a un soggetto con sopraggiunto deficit uditivo di continuare a capire, dall’altro ritarda la consapevolezza della perdita uditiva, allontanando il momento in cui si interviene per rimediare. Questo ritardo aggrava però ulteriormente la situazione, peggiorando gli effetti complessivi dell’ipoacusia.

Da “L’emozione del suono – Persone, servizio e innovazione: il percorso di crescita sostenibile di un leader globale” di Valentina Fornari, Egea, 160 pagine, 20,90 euro

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