Parole d’argentoL’ultrasuono del silenzio

Così come nella vita di tutti i giorni, anche in politica estera il “non detto” è spesso più importante di ciò che si dice. E oggi in Ucraina noi occidentali scontiamo la responsabilità di non aver detto abbastanza, in passato, sullo stalinismo e sull’imperialismo russo

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Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia

Molti anni fa mi regalarono un manuale di disegno. Prometteva di rendere capace chiunque, anche chi come me non aveva alcun talento figurativo, di disegnare ritratti con verosimiglianza, di cogliere non solo le sembianze del soggetto ma anche il suo carattere. L’istruzione principale per ottenere questo realismo era: non disegnate la forma dei lineamenti, ma lo spazio vuoto che hanno intorno. Non disegnate la fronte, il naso, le labbra, bensì la loro assenza. Disegnate ciò che non c’è, non ciò che c’è. I risultati furono sorprendenti: sebbene il disegno non sia mai stato il mio strumento di espressione preferito – mi sono sempre sentita più a mio agio con il linguaggio e la musica – con questa tecnica riuscii in effetti a disegnare ritratti in qualche modo realistici, cosa che non ero mai riuscita a fare fino ad allora.

Non erano né belli né visivamente interessanti, ma effettivamente assomigliavano ai miei soggetti, rendevano la loro somiglianza e persino, come promesso, la loro espressione. Non ho proseguito la mia carriera di ritrattista, ma non ho mai dimenticato la sorprendente esperienza di vedere apparire la realtà del mondo visivo non quando cercavo di ritrarla direttamente, ma disegnandone i vuoti.

Come scrittrice, questa esperienza mi è molto familiare e sono sicura che molti degli scrittori presenti in questa sala sapranno cosa intendo: il significato più profondo, la rilevanza, la forza espressiva dei testi che creo molto spesso non è tanto nelle parole di cui sono fatti, ma in quelle che non ci sono. Il nucleo del testo, la sua energia se vogliamo, non risiede tanto nelle parole quanto negli spazi vuoti tra loro. In ciò che è lasciato implicito, non detto. Quello spazio vuoto, quel silenzio, è il luogo in cui può avvenire la comunicazione tra me, l’autore, e il lettore.

Senza quel silenzio, senza quelle parole mancanti, se il mio testo dovesse essere completamente riempito di significati, descrizioni, dettagli, spiegazioni, con ogni singola parola che esprime ciò che ho immaginato, non sarebbe possibile alcuna comunicazione. Il lettore non avrebbe nulla da fare. Il silenzio è il luogo in cui il libro che scrivo può prendere vita, il luogo in cui riesce, o fallisce, nel suo compito principale: suscitare un’esperienza di lettura attiva. E questa esperienza può essere ottenuta solo quando i lettori possono riempire i vuoti, quando possono reagire attivamente a quei vuoti.

Lo spazio e il silenzio sono il luogo in cui io, autore, invito i lettori a essere i miei co-creatori. Senza silenzio in un testo, non c’è comunicazione – in altre parole, non c’è letteratura.

Questo è l’ultrasuono del silenzio, la potente risonanza nascosta di ciò che non viene detto. È qui che si crea la vera energia della comunicazione. Il silenzio è il luogo in cui il linguaggio diventa qualcosa di più di un semplice suono con un significato, e diventando un ultrasuono crea un’esperienza vissuta. Il silenzio è il luogo in cui il linguaggio smette di essere “solo parole” e si trasforma in vita.

Ma il potere del silenzio va ben oltre l’esperienza letteraria. Si manifesta, ovviamente, nelle relazioni personali. La nostra vita emotiva è plasmata quasi più da ciò che non viene detto che da ciò che viene effettivamente detto, questa è un’ovvietà. Fin da bambina, nata in una famiglia occidentale media, percepivo chiaramente che ciò di cui i miei genitori non parlavano a tavola era molto più importante, interessante e gravido di conseguenze delle loro chiacchiere. E sappiamo tutti come le strutture di potere – dai ruoli di genere all’oppressione di classe, a ogni altra forma di dominio o abuso, collettivo o individuale – prosperino nel silenzio. Ogni abuso è tanto più potente quanto è più fitto il silenzio che lo circonda. Per questo il semplice atto di rifiutarsi di tacere sull’oppressione è sempre il primo passo necessario nella lotta per porvi fine.

Mi verrebbe da dire che, da quando è stato inventato il linguaggio, il silenzio – ciò che rimane non detto – è stata una delle forze più potenti che abbiano plasmato l’esperienza della nostra specie. E che, da quando abbiamo inventato il linguaggio, l’ecografia del silenzio sia quasi al pari dei due principali motori della nostra sopravvivenza biologica – la fame e il sesso – e quindi della nostra storia. In effetti, un modo possibile per descrivere l’evoluzione delle società e delle culture umane è quello di tracciare come ogni generazione ha reagito al silenzio che le precedenti le hanno consegnato.

Se lo hanno riempito con le parole mancanti, o se lo hanno trasmesso intatto ai loro figli. Non è sempre una storia di progresso, tutt’altro. A periodi di vivace espressione sono spesso seguiti periodi di silenzio – ma è proprio questa la dinamica. Ecco una possibile definizione di Storia, con la “S” maiuscola: il racconto di come i silenzi tramandati dalle generazioni precedenti sono o non sono stati affrontati, e dei nuovi silenzi che si sono o non si sono creati in questo processo, e di ciò che le generazioni successive hanno fatto con essi – e così via.

Vorrei fornirvi alcuni esempi di ciò che intendo. Il primo è spettacolare, sia per la sua rilevanza sia per le sue conseguenze. il silenzio che si trova proprio nel cuore di due dei documenti fondanti della democrazia occidentale: la Dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione degli Stati Uniti d’America. «Riteniamo che queste verità siano evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità».

È difficile leggere queste parole e non provare un po’ di orgoglio – come dire? – beh, orgoglio per l’esperienza umana. Che specie straordinaria, questo Homo sapiens sapiens, capace di concepire tali idee…! Eppure, mentre Thomas Jefferson scriveva queste straordinarie parole nel suo studio di Monticello, fuori dalla sua finestra c’erano centinaia di esseri umani i cui corpi erano di sua proprietà, sui quali egli aveva potere assoluto di vita e di morte, e la cui intera esistenza non solo era definita dall’assenza di libertà, ma era l’opposto delle condizioni per il perseguimento della felicità individuale.

Quegli uomini e quelle donne fuori dalla finestra di Jefferson e chini sui campi di tabacco che lui possedeva al pari di loro, sono il minaccioso cuore di silenzio all’interno delle meravigliose parole da lui scritte.

Qualche anno dopo, i padri fondatori si riunirono a Filadelfia per scrivere la Costituzione americana, e concepirono molte delle idee rivoluzionarie che hanno dato il via a quello stupefacente esperimento di cui noi occidentali ci vantiamo e che chiamiamo “democrazia occidentale”, una delle quali consisteva nel rivendicare la libertà di parola come nientemeno che il primo diritto inalienabile di cui i cittadini devono godere. E così, il diritto di parlare liberamente è stato sancito dal Primo Emendamento, il primo in assoluto nel Bill of Rights. Eppure, in molte case di quei padri fondatori vivevano persone che potevano essere torturate a morte se solo avessero osato rispondere sgarbatamente al loro padrone.

Questo è il silenzio che pulsa nel cuore della Dichiarazione d’Indipendenza e della Costituzione americana: la parola “schiavitù”.

Molti dei Padri fondatori sapevano perfettamente che la schiavitù era sbagliata. Alcuni di loro, da cristiani devoti, credevano addirittura che fosse un peccato. Ma, accidenti, la schiavitù era anche così redditizia! Era un modo straordinario per fare soldi, tanti soldi, da questa vasta terra che erano venuti a occupare (peraltro, per inciso, attraverso il genocidio e la colonizzazione – ma restiamo in tema).

La schiavitù era una così buona cosa, per loro. Non tanto per le persone schiavizzate, ma cosa fare? Ecco perché nominare la schiavitù sarebbe stato profondamente imbarazzante. Nominandola, riconoscendo che esisteva, sarebbero stati costretti a dichiarare cosa intendevano farne. Mantenerla? Abolirla? Perché è questo che fanno le dichiarazioni, è questo che fanno le Costituzioni: stabiliscono le regole, il quadro di riferimento, i valori. Ma i Padri fondatori erano bloccati in questa monumentale ambivalenza – o, se volete, monumentale ipocrisia.

Forse odiavano la schiavitù, ma la amavano anche. Al punto che non riuscirono nemmeno a nominarla. Un giorno, si dicevano, questo plateale orrore sarebbe stato sicuramente abolito. Ma quando, e come, era meglio non dirlo. Meglio non parlare affatto di schiavitù.

Così la democrazia occidentale, nei suoi documenti fondamentali, è stata costruita attorno al silenzio. Ma era un silenzio molto potente. Un potere così minaccioso e grande che ha quasi distrutto la giovane nazione.

Nel 1865, finalmente con la parola che avrebbe dovuto essere scritta, ma non lo fu, ci volle il più spaventoso bagno di sangue che gli Stati Uniti abbiano mai vissuto in tutta la loro storia. Mezzo milione di uomini e innumerevoli civili dovettero morire nella Guerra civile per sostituire finalmente quel silenzio con la parola non scritta che era al centro delle sue Carte fondanti. Nel 1865, finalmente, la parola “schiavitù” venne scritta nella Costituzione americana, per la prima e ultima volta.

Il Tredicesimo emendamento la abolì con la frase: «Negli Stati Uniti non esisteranno né schiavitù né servitù involontaria». L’abolizione della schiavitù fu sancita dall’atto di nominarla. La schiavitù poté essere abolita solo quando la sua realtà estremamente materiale – una realtà fatta di corpi, catene, fruste, corde per impiccagione – venne finalmente strappata dalle fauci del silenzio.

Questa parola omessa – “schiavitù” – tuttavia, e il silenzio che la sostituì nella Costituzione originale, hanno continuato a plasmare la storia degli Stati Uniti.

Il suo potere ultrasonico non si è affatto esaurito con l’abolizione e ha continuato a produrre realtà molto concrete: gli orrori di Jim Crow e della cultura del linciaggio; il terrorismo diffuso contro la comunità afroamericana – il massacro di Tulsa e innumerevoli altri; lo spostamento di quasi due milioni di afroamericani che gli storici chiamano la Grande Migrazione, ma che dovrebbe invece essere definito un esodo interno di rifugiati da una violenza insopportabile; le catene di lavoro forzato dei detenuti e l’odierna incarcerazione di massa; la segregazione urbana che ancora caratterizza le città americane decenni dopo che il redlining non è più ufficialmente legale e che ancora separa coloro che hanno accesso all’acqua potabile, al cibo sano, a un alloggio decente e a una forza di polizia amichevole da coloro che non ce l’hanno; la lotta per i diritti civili di sessant’anni fa e l’attuale corsa in certi Stati a promulgare leggi che ancora una volta tentano di sopprimere il voto dei non bianchi in vista delle prossime elezioni presidenziali, e così via.

L’ultrasuono che emana dal silenzio che ha sostituito la parola “schiavitù” nei documenti di fondazione degli Stati Uniti, e che ha reso possibile sia il suo orrore sia la lotta per abolire sia la schiavitù sia la sua eredità, ha plasmato la storia, la democrazia, la società, il sistema giudiziario, il sistema sanitario, i rapporti di lavoro, la pianificazione urbana e molto altro ancora fino a oggi, in modi che sono ancora lontani dall’essere superati e che non possono essere sopravvalutati – ma che anche, credo, non sono ancora del tutto riconosciuti, o addirittura conosciuti, da noi europei occidentali quando cerchiamo di dare un senso a ciò che sta accadendo oggi negli Stati Uniti d’America.

Quanta realtà, creata da una sola parola mancante.

Il secondo esempio è proprio qui a Berlino, molto vicino al luogo in cui ci troviamo oggi. È il monumento all’esercito sovietico sulla Strada del 17 Giugno. È stato costruito nel 1945, quando il Tiergarten era ancora una landa desolata e Berlino un cumulo di macerie. La si potrebbe definire un’enorme installazione multimediale – ha un colonnato, scalinate, statue, persino un carro armato – dedicata alla gloriosa vittoria dell’Armata Rossa sul nazismo. Nel momento in cui fu eretto, circa una berlinese su venti, di età compresa tra gli otto e gli ottant’anni, era stata appena violentata dai soldati dell’esercito sovietico. Per questo le donne berlinesi lo chiamavano il Monumento allo Stupratore Sconosciuto – ma del resto cosa ne sanno le donne dei monumenti, sono troppo emotive per capire la gloria o la vittoria.

Per qualche misteriosa ragione, le donne non apprezzano particolarmente i monumenti che glorificano i loro stupratori… non si capisce come mai! A differenza dell’altro monumento all’Armata Rossa, che è nel Treptower Park che all’epoca si trovava nel settore sovietico, questo si trovava nel settore britannico, quindi occidentale. Ma un trattato tra gli ex alleati garantiva che sarebbe stato conservato e preservato dagli occupanti occidentali, e così è sempre stato, anche dopo la costruzione del Muro. E la sua cura venne concordata esplicitamente anche nel Trattato del 1990 che ha definito i termini della Riunificazione della Germania.

L’omissione, il silenzio di cui voglio parlare qui, è letteralmente scritto con l’oro. È, cioè, nei grandi numeri d’oro sulla colonna centrale, che secondo questo monumento segnalano le date in cui l’esercito sovietico ha combattuto, e infine vinto, la Seconda guerra mondiale. Questi numeri d’oro sono: 1941-1945. Dal 1941 al 1945: la Grande Guerra Patriottica, la formidabile lotta contro l’invasore nazista e, infine, la sua sconfitta.

Qual è il silenzio che da quasi ottant’anni irradia quelle lettere d’oro? Il grande silenzio è la risposta a questa domanda: cosa stava facendo esattamente l’Armata Rossa prima del 1941? Si stava addestrando nelle caserme dell’Unione Sovietica? Si stava preparando all’imminente invasione nazista? Non esattamente.

Basta chiedere ai lettoni, ai polacchi, agli estoni, ai finlandesi, ai lituani, ai rumeni… Loro lo sanno, cosa stava facendo. E vi diranno che l’Armata Rossa si teneva occupata invadendo, occupando, uccidendo chi le resisteva. Basta chiedere ai discendenti dei 22.000 – ventiduemila! – ufficiali polacchi, giornalisti, intellettuali, personalità pubbliche e altre persone massacrate dai sovietici nella foresta di Katyn. Queste due date hanno sostenuto per quasi ottant’anni la menzogna secondo cui l’Unione Sovietica sarebbe entrata nella Seconda guerra mondiale solo dopo essere stata invasa da Adolf Hitler. Invece, se quel monumento fosse veritiero, le date d’oro sarebbero dal 1939 – e non dal 1941 – al 1945. Ma, ovviamente, non è così.

I monumenti non servono a raccontare la Storia così com’è. I monumenti, soprattutto quelli grandiosi come questo, sono molto spesso il modo in cui i silenzi della Storia vengono letteralmente incisi nella pietra. O scritti a lettere d’oro, come in questo caso. Lettere d’oro che le potenze occidentali hanno promesso di mantenere e proteggere anche dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

La parola è d’argento, ma il silenzio è d’oro, si dice. Nel Monumento all’Armata Rossa di Berlino Ovest non è una metafora. Qui il silenzio è letteralmente fatto di numeri d’oro su una colonna di marmo, sotto gli occhi di tutti. Dopo la guerra, anzi fin dall’inizio dell’invasione hitleriana, in Unione Sovietica anche solo nominare il Patto Molotov-Ribbentrop divenne un crimine punibile con la morte. La Seconda guerra mondiale era la Grande guerra patriottica contro il nazismo ed era iniziata nel 1941 con l’invasione di Hitler, punto e basta – affermare il contrario significava essere un traditore. I due anni dal 1939 al 1941, durante i quali Hitler e Stalin erano stati alleati e si erano accordati su come dividersi l’Europa, dovevano essere cancellati dai libri di storia e dai ricordi personali.

E così quei due anni taciuti – i numeri d’oro “1941” al posto di “1939” – divennero la pietra miliare delle relazioni tra l’Unione Sovietica e i Paesi a Est della Cortina di ferro. Praga 1968, Budapest 1956, fino a Berlino 1953, proprio quel 17 giugno che viene onorato dall’indirizzo del monumento: la storia del blocco orientale è stata plasmata dai carri armati sovietici che hanno schiacciato con il sangue la volontà popolare. “Liberazione” fu il nome dato a qualcosa che si sarebbe rivelato molto più violento e oscuro.

Vi suona familiare? Se sì, non è una coincidenza. Ma una continuazione. Il silenzio, l’ultrasuono del silenzio che pulsa in quei numeri d’oro, è stato ripreso e implementato attivamente come ideologia di Stato da Vladimir Vladimirovič Putin. Putin ha lavorato per molti anni al progetto di far assurgere la Grande guerra patriottica a collante identitario per il popolo russo, a compensazione con un passato glorificato per la spaventosa mancanza di ogni visione, o proposta, per il suo futuro. Nel 2022 ha definito l’invasione su larga scala dell’Ucraina come la continuazione della Grande guerra patriottica. Ha definito “nazismo” una giovane democrazia indipendente. Ha chiamato “liberazione” una sanguinosa invasione.

Ma c’è un altro silenzio scomodo in quelle lettere d’oro. Esse non esprimono solo il silenzio ufficiale su quei due anni imbarazzanti in cui l’Unione Sovietica fu alleata della Germania nazista, e sul suo tragico e bizzarro rilancio ai nostri tempi da parte di Vladimir Putin. Esprimono anche il silenzio dell’Occidente su tutto questo. Esprimono il nostro silenzio – di noi occidentali, intendo.

E ho una sensazione spiacevole, che sicuramente mi porterebbe via molto più tempo di questo breve discorso per esporla, quindi mi limiterò a darvi un’impressione, ed è questa: che ci sia un legame diretto tra il modo in cui noi occidentali abbiamo acconsentito, e anzi abbiamo firmato trattati che ci rendevano garanti e protettori dell’omissione sancita da quelle lettere d’oro sul monumento all’esercito sovietico, e l’acquiescenza silenziosa che sempre noi europei occidentali, in particolare i cittadini e le istituzioni dell’Unione europea, abbiamo avuto nei confronti dell’escalation di violenza della Russia negli ultimi vent’anni.

Tra il modo in cui non abbiamo sfidato, né cambiato, quei falsi numeri d’oro, e il modo in cui siamo rimasti in silenzio dopo che Groznyj è stata ridotta in macerie, il modo in cui siamo rimasti in silenzio quando la Georgia è stata invasa, il modo in cui siamo rimasti in silenzio quando Aleppo è stata ridotta in macerie, il modo in cui siamo rimasti in silenzio quando gli omini verdi di Igor Girkin hanno trasformato Donetsk in uno dei luoghi più violenti e tristi della terra, il modo in cui siamo rimasti sostanzialmente in silenzio quando la Crimea è stata annessa illegalmente.

Non posso fare a meno di vedere nel silenzio che noi occidentali abbiamo mantenuto nei confronti di questa successione di crimini di Putin un’eredità del nostro imbarazzato silenzio nei confronti di quella stessa dorata bugia di omissione, lassù sul monumento nella Strasse des 17 Juni.

Alcuni mesi fa, il grande scrittore russo Vladimir Sorokin ha detto questo: la comunità internazionale è riuscita a scavare una fossa profonda per il disgustoso cadavere del nazismo, seppellendolo definitivamente nel cimitero della Storia; ma non è riuscita a fare lo stesso con quello dello stalinismo – e, aggiungo io, dell’imperialismo russo. Quindi eccoci di nuovo qui, con questa specie di reincarnazione fuori tempo massimo di vecchi incubi silenziosi, vecchi traumi silenziosi, e oggi, mentre parliamo, questo orribile zombie sta portando sofferenza e distruzione inimmaginabili in Ucraina. Ed eccoci di nuovo qui, con una “liberazione” che è, in realtà, una sanguinosa invasione.

Se nel febbraio del 2022 fossi stata una ritrattista incaricata di disegnare un’immagine fedele della comunità di cui mi sento così profondamente parte insieme al mio essere italiana, l’Unione europea, avrei seguito il consiglio di quel manuale di disegno, e avrei tracciato le linee non di ciò che abbiamo fatto in questi ultimi venti anni, ma di ciò che non abbiamo fatto. Non di quello che abbiamo detto, ma di quello che non abbiamo detto. È lì che troverei il nostro vero volto, la nostra vera espressione, quindi la nostra vera responsabilità collettiva, quando è iniziata questa guerra genocida.

Il silenzio è davvero un superpotere. Silenzio e parole, parole e silenzio: la storia è creata dall’interazione di entrambi. E proprio come nella letteratura, in ogni silenzio si nascondono parole, e in ogni parola c’è un nucleo di silenzio. La parola “libertà” può nascondere il dolore silenzioso di esseri umani costretti a vivere e morire in schiavitù. Oppure, per esempio, prendiamo la parola “pace”. È una parola bellissima, a chi non piace? Ma può anche essere usata per mettere a tacere la giustizia.

In quest’ultimo anno e mezzo, dall’invasione su larga scala dell’Ucraina, molti nel nostro confortevole Occidente hanno ripetuto più e più volte la parola “pace” ma senza mai pronunciare insieme anche la parola “giustizia”. E la parola “giustizia”, quando non viene pronunciata ma taciuta all’interno dell’altrimenti bellissima parola “pace”, è uno di quegli ultrasuoni potenti: la sua assenza produce eventi, eventi terribili e molto reali. Produce l’acquiescenza alle camere di tortura di Irpin, agli orrori di Bucha, all’appiattimento di Mariupol.

Parole bellissime come “libertà” o “pace” possono contenere al loro interno silenzi molto cupi.

Il mio lavoro di scrittrice consiste nell’ascoltare sempre molto attentamente ciò che rimane non detto. Nel non accontentarmi mai delle belle parole, nemmeno quando sono meravigliose come “libertà” o “pace”. Io amo la libertà, io amo la pace. Ma il mio compito è ascoltare il silenzio che anche la parola più bella può nascondere in sé. E poi dare un nome a quel silenzio.

Questo testo è stato il discorso di apertura del 23° Literature Festival di Berlino.

© FRANCESCA MELANDRI © AGENZIA LETTERARIA ITALIANA 2023

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia

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