Il presidenzialismo è come il ponte sullo stretto di Messina: vagheggiato per decenni, più volte progettato, disegnato da architetti d’ogni sorta su fogli di carta svolazzanti, promesso ripetutamente da politici di destra e di sinistra per il giorno dopo o l’altro dopo ancora – senza cavare mai un ragno dal buco. Adesso però il ragno sta per uscire dal suo buco. Le elezioni del settembre 2022 hanno battezzato una maggioranza netta, il cui programma di governo prometteva sia il ponte sullo Stretto (punto 2) sia l’elezione diretta del presidente della repubblica (punto 3). Sul ponte manca ancora la prima pietra, anzi non c’è nemmeno un sassolino. I cantieri del presidenzialismo viceversa sono aperti, gli operai al lavoro. La buca è scoperchiata, sta per uscirne la creatura. Converrà quindi guardare da vicino questo ragno, studiarlo, esaminarlo. Potrebbe morderci, anziché trasformarci nel paese delle fate.
Ma che cos’è il presidenzialismo? Una “forma di governo”, cioè uno dei modi con cui avvengono la trasmissione e l’esercizio del potere, distribuendolo fra i vari organi costituzionali. Si distingue perciò dalla forma di governo parlamentare, scelta dai costituenti italiani nel 1947; ma non perché in quest’ultima manchi un presidente, né perché il presidenzialismo cancelli il parlamento. Una o due assemblee parlamentari s’incontrano dovunque, benché nei regimi autoritari vengano ridotte a un simulacro, senza peso né poteri. E un capo dello stato – monarca o presidente – c’è in tutti gli ordinamenti, del presente o del passato. Con rarissime eccezioni, a voler essere precisi. La Costituzione giacobina francese del 24 giugno 1793, che non ne contemplava la figura. I vecchi stati socialisti (anche se lì, di fatto, il presidente era incarnato dal segretario del Partito comunista). La Svizzera, dove i sette membri del consiglio federale esercitano collegialmente le funzioni di capo dello stato.
Insomma, il presidenzialismo non dipende dal presidente, bensì dai suoi poteri. Che sono poteri di governo, non di garanzia, come quelli attribuiti a Mattarella. E che derivano dall’investitura popolare che bagna il presidente. Da qui il tratto che distingue il nostro ragno da tutti gli altri ragni della zoologia costituzionale: l’elezione diretta del capo dello stato. Cui s’accompagna una separazione dei poteri rigida, senza compromessi. In Italia i presidenti della repubblica hanno sciolto più volte il parlamento (Leone nel 1972 e nel 1976, Pertini nel 1979 e nel 1983, Cossiga nel 1987, Scalfaro nel 1994 e nel 1996, Napolitano nel 2008 e nel 2012, Mattarella nel 2022), convocando elezioni anticipate; negli Stati Uniti Biden non ha questo potere. Perché laggiù, dove sul volgere del Settecento il presidenzialismo venne brevettato, non c’è nemmeno il rapporto di fiducia che alle nostre latitudini unisce in matrimonio governo e parlamento, innescando crisi politiche infinite (68 governi dal 1946 al 2022): ciascuno fa il proprio mestiere. Uno scrive le leggi, l’altro le fa eseguire.
Poi, certo, la purezza del modello finisce sempre per sporcarsi quando viene in contatto con la prassi, con la realtà dei rapporti politici e sociali. È accaduto (accade) negli Stati Uniti, e a maggior ragione nei paesi che hanno imitato quel modello, deformandolo, trasformandolo in una caricatura. Come in Sudamerica, dove il presidente è assai spesso un generale; in Asia (Filippine e Corea del Sud); in Africa (Namibia e Nigeria). Per non dire della Russia, dove il presidenzialismo ha esordito nel 1993, con la nuova Costituzione postsovietica. E dove Putin regna ininterrottamente dal 1999, con gli stessi poteri di uno scià. Votato dai suoi concittadini, ma attraverso elezioni opache, scandite da brogli e da minacce verso ogni oppositore.
E a proposito delle elezioni presidenziali. Possono tenersi in varia guisa, e la differenza non è di poco conto. Intanto, non sempre viene prevista l’elezione diretta da parte del corpo elettorale, bensì un’elezione di secondo grado: gli elettori scelgono dei “grandi elettori”, che a loro volta scelgono il futuro presidente. Così nella Francia della V Repubblica tra il 1958 e il 1962, in Finlandia dal 1986, negli Stati Uniti fin dal 1787. Anche se negli Usa i 538 grandi elettori rispettano sempre il proprio vincolo, mantenendosi fedeli al candidato per il quale erano stati scelti (nelle 58 elezioni presidenziali della storia americana i faithless electors, gli elettori infedeli, sono stati 88 appena). Di fatto, quindi, è un’elezione diretta pure quella. Che si sposa a una legge elettorale di tipo maggioritario per comporre il parlamento, favorendo l’edificazione di un sistema politico bipolare – di qua la destra, di là la sinistra, senza cespugli in mezzo. Viceversa, quando il presidenzialismo s’accompagna al proporzionale, quando cioè la legge elettorale alimenta la proliferazione dei partiti, per lo più ne derivano instabilità e conflitti.
Anche i requisiti che deve possedere il presidente, la durata della carica, la possibilità di rielezione, sono mutevoli nei diversi ordinamenti. L’età, per dirne una: negli Stati Uniti basta aver compiuto trentacinque anni, in Italia il presidente della nostra repubblica parlamentare deve avere mezzo secolo di vita sul groppone. Sicché Kennedy (eletto nel 1960, all’età di quarantatré anni) si è guadagnato un posto nella storia guidando la massima potenza del pianeta, ma non avrebbe mai potuto varcare il Quirinale; e come lui Obama (eletto per la prima volta nel 2008, a quarantasette anni). Non c’è però, né in America né altrove, un’età massima per sedere in quello scranno; in teoria, la porta è aperta pure ai centenari. O quasi, come dimostra (nel 2016) il successo di Donald Trump, all’epoca settantenne, e perciò l’uomo più anziano a conquistare la Casa Bianca; dopo di che il suo primato è stato subito stracciato da Joe Biden, che nel 2020 di anni ne aveva già settantasette. Ma sempre meno di Napolitano, eletto a ottantasette anni per il suo secondo mandato (nel 2013).
Quanto alla durata in carica, in genere coincide con la legislatura, per evitare la difficile convivenza del presidente eletto con una maggioranza parlamentare dal colore opposto. Succedeva in Francia, prima della riforma costituzionale del 2000 che ha allineato i due mandati elettorali; ed erano scintille (per esempio durante la cohabitation fra il presidente socialista Mitterrand e il primo ministro gollista Chirac, dal 1986 al 1988; o fra quest’ultimo, divenuto nel frattempo presidente, e il primo ministro socialista Jospin, dopo il 1997). Votando contemporaneamente l’uno e l’altro, invece, il primo potrà contare su un parlamento amico, se non proprio asservito ai suoi voleri; e i poteri presidenziali potranno espandersi alla massima potenza. Al contrario, quando il presidente svolge un ruolo di garanzia, anziché di governo, la sua permanenza nella carica è maggiore rispetto alle assemblee legislative, proprio per favorirne l’indipendenza dalla maggioranza politica di turno. È il caso dell’Italia, dove al Quirinale ci si va per sette anni, in parlamento per cinque.
Insomma, il presidente eletto è un uomo (o una donna) molto potente, se non anche onnipotente. Ecco perché i sistemi democratici pongono limiti alla sua rielezione. Basta leggere Aristotele (Politica, 1317b): se la tirannide è monopolio del potere da parte dei gruppi dominanti, allora in democrazia si governa e si viene governati a turno. Dunque nessuna carica può mai avere durata vitalizia, e ogni potere dev’essere sempre provvisorio, di breve durata. Tanto che nell’Atene del V secolo l’epistate dei pritani, una sorta di capo dello stato, durava appena un giorno, e si poteva ricoprire questo ruolo una sola volta nella vita. Mentre a Firenze, nel Cinquecento, i membri della magistratura suprema (i priori e il gonfaloniere) rimanevano in carica due mesi.
Senza arrivare a questi estremi, la lezione greca riecheggia nella regola applicata dalla più grande democrazia di questo mondo per il suo comandante in capo: due mandati e basta. Venne introdotta nel 1951, attraverso il XXII emendamento alla Costituzione americana; non a caso, dopo i quattro mandati consecutivi d’un presidente che pure si chiamava Roosevelt. Perché un potere prolungato t’ubriaca, ti priva di senso della misura e d’equilibrio, e in questo la lezione greca ha ancora molto da insegnarci.
Loro avevano del potere una visione tragica, demoniaca: è inevitabile, dato che non c’è società senza potere, senza distinzione fra governanti e governati. Però va addomesticato, va imbracato in un telaio di regole, per tenerlo in scacco con un sistema d’espedienti, per tagliargli le unghie, per impedirgli abusi.
Ma a quanto pare il diavolo non incute troppa paura agli italiani. Stufi delle liturgie parlamentari, delle troppe garanzie che inceppano il sistema, del balletto dei governi, reclamano stabilità, e la cercano attraverso un capo, un condottiero cui affidarsi. Comprensibile, anche se allarmante: la democrazia è assenza di capi, diceva Kelsen, e prima di lui Platone. Ma dopotutto non è il caso di chiamare i partigiani.
Vero, noi italiani spesso ci votiamo a un salvatore della patria; però soltanto per il gusto d’impiccarlo a testa in giù. Accadde a Mussolini, e dopo di lui – metaforicamente – a molti leader politici di cui per un momento ci infatuammo: Craxi, Monti, Renzi, lo stesso presidente Napolitano. È il nostro vaccino nazionale contro il virus della capocrazia. Gli italiani sono per la tirannide, ma temperata dal tirannicidio.
Nel frattempo c’è in giro questa voglia di “democrazia immediata”, avrebbe detto Duverger (La monarchie républicaine, 1974). Ovvero d’un sistema che permetta agli elettori la scelta del governo, senza delegarla alla mediazione dei partiti. Così, mentre la fiducia nei partiti vola rasoterra (3,3 su una scala da 0 a 10, dichiara un rapporto Istat del 2021), sale viceversa il consenso popolare verso il presidenzialismo, verso l’elezione diretta del presidente della repubblica. Già nel 2013 piaceva al 61 per cento degli italiani, stando a un sondaggio Swg; in seguito questa percentuale è lievitata ulteriormente. Toccando il 74 per cento nel dicembre 2021, in base a una rilevazione Demos; e comprendendo non soltanto la quasi totalità di chi vota a destra, ma pure il 61 per cento degli elettori del Pd. A sua volta, un altro sondaggio di Analisi politica (gennaio 2023) mostra come il 90 per cento degli intervistati chieda riforme radicali per rimettere in moto lo stato italiano. E il presidenzialismo è per l’appunto un bel rivolgimento, se non una rivoluzione.
Tuttavia la storia italiana è punteggiata da riforme fallite, che generano più danni dei vecchi guai cui avrebbero dovuto rimediare. Il nuovo Titolo V sui rapporti fra stato e regioni, per dirne una: licenziato nel 2001 dalla sinistra per impadronirsi della bandiera federalista sventolata dalla destra, oggi non ha più genitori, nessuno ha la faccia tosta di difenderlo. Non ci ha donato un sistema federale alla tedesca, né un regionalismo alla spagnola; soltanto un pasticcio all’italiana. Onde evitare di ricadere nell’errore, sarà bene tenere a mente una lezione. Scriveva Giovanni Sartori nel 2003: “Il genio italico predilige il bricolage, l’arlecchinismo costituzionale, e approda così all’invenzione di bastardi senza capo né coda, oppure con il capo al posto della coda”.