Genius lociAlle isole FÆR Øer si mangia anche l’aria

Nell’arcipelago nordico, la ricerca culinaria si affida ai prodotti locali per dare un significato contemporaneo a sapori che un clima unico ha forgiato nei secoli

Alessio Mesiano

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia

Arrivare alle Fær Øer atterrando a Sørvágur, sull’isola di Vágar, con il vento battente e la pioggia che cade di traverso, è come entrare in un quadro di William Turner. In questo arcipelago quasi sempre avvolto da una nebbia rarefatta e bagnata, i mesi estivi costituiscono una porzione molto breve di sole e di cielo sereno con variazioni meteorologiche imprevedibili. Sono proprio le condizioni climatiche ad aver determinato l’evoluzione geologica, demografica, economica e sociale delle Fær Øer. E sono ancora molto visibili i tre elementi – acqua, terra e aria – che da sempre definiscono queste terre. L’acqua bagna dal basso e dall’alto ogni lembo di roccia, creando un flusso continuo tra il mare e la pioggia, che scorre lungo le montagne e confluisce nelle migliaia di cascate, rigagnoli, torrenti e cascatelle prima di tornare in mare. La terra si presenta come un grande plateau di basalto originatosi a seguito di gigantesche eruzioni vulcaniche oltre 50 milioni di anni fa. Ed è la terra ad accogliere le attività agricole e pastorali che ruotano intorno al terzo fattore: l’aria. Ed è proprio l’aria il cardine, il cromosoma anomalo della gastronomia faroese, nonché l’“ingrediente” speciale delle ricette locali.

È una storia fatta di tradizioni uniche che non hanno quasi subito innovazioni nel corso dei secoli. Ad esempio, si hanno testimonianze che risalgono al Duecento riguardo al grindadráp, la caccia alle balene pilota che vengono portate vicino alla costa in fiordi o baie disabitate per essere accerchiate e uccise. È una pratica che viene eseguita ancora oggi, non senza controversie. Dal mare arrivano anche aragoste, haddock, halibut, baccalà, razze e merluzzo carbonaro. Ma sono i frutti di mare a costituire un unicum incredibilmente vario e prezioso. Ricci polposi e lucidi, capesante, cannolicchi, cozze versione extra large e horse mussels – dei molluschi bivalve di colore arancio che possono arrivare a misurare venti centimetri.

Alessio Mesiano

Altri elementi significativi a queste latitudini sono i vegetali marini e le alghe che possono anche raggiungere diversi metri di lunghezza. La dulse, per esempio, è larga e spessa, di un verde scuro che vira all’olivastro, e viene utilizzata cotta alla griglia e poi infusa, oppure essiccata a guarnire un piatto o, ancora, combinata con altri ingredienti. Le tipologie edibili sono molteplici, dal tartufo di mare, alla lattuga di mare fino alle differenti varianti di kelp. Tuttavia, mentre in Giappone le alghe si mangiano da secoli, sono entrate a far parte solo di recente della nuova cucina nordica.

«In genere, facciamo scorta di alghe e frutti di mare ogni due mesi, quando sappiamo che le correnti sono favorevoli e la marea non è troppo alta», ci racconta Sebastian Jiménez, executive chef del fine dining Ræst che si trova nella capitale Tórshavn. «La peculiarità del nostro approccio consiste nell’approvvigionarci di ingredienti che sono propri delle isole. Tutte le proteine che serviamo nel nostro menu provengono dall’arcipelago e questo perché la magia di questo posto è una doppia combinazione di imprevedibilità meteorologiche e biodiversità. Ci sono periodi in cui per via delle tempeste i pescatori non possono uscire per giorni interi e occorre arrangiarsi con qualcosa di diverso».

Alessio Mesiano

Insieme ai suoi due aiutanti, Thomas Fournié e Thomas Deoude, il ventottenne Sebastian, originario di Puebla in Messico, ha terminato la sua prima stagione a capo di Ræst, un ristorante da soli venti due coperti incentrato sulla speciale tecnica di essiccazione al vento praticata alle Fær Øer. Fino a quando il sale non divenne di più facile reperibilità, e quindi fino al XVIII secolo, gli abitanti dei Paesi del Nord erano soliti conservare carne e pesce lasciandoli essiccare appesi fuori dalle case o in specifici locali aerati. Il termine “ræst”, da cui il nome del ristorante, indica tanto il processo tradizionale di air-dry aging quanto l’unicità di gusto, consistenza e aromaticità che deriva da quello specifico sistema. Affinché le carni non si guastino, non marciscano, non perdano sapore è necessaria una particolare combinazione di umidità e temperature. Ne consegue che ogni isola, a seconda del meteo e del tempo di esposizione al vento, regala risultati diversi.

Ræst, che è il fratello minore dello stellato Koks (che attualmente è operativo a Ilimanaq in Groenlandia ma sarà forse di ritorno alle Fær Øer per il 2025), è nato proprio sulla base di questa tecnica da cui ha preso il nome. In una terra dove frutta e verdura – salvo patate, rape e poco altro – sono pressoché inesistenti, dove non crescono bacche, dove il latte di vacca scarseggia, dove non esiste una produzione casearia locale, dove pollame e carni rosse sono una rarità, ci si domanda come si possa portare avanti un progetto di ricerca gastronomica.

La cucina di Ræst – che fisicamente non è molto diversa da quella di una casa privata – risponde a queste domande in chiave fine dining e senza compromessi. I sapori sono arcaici, intensi, molto impegnativi e per qualcuno persino stomachevoli. L’agnello, animale quasi sacralizzato e di cui non si butta via nulla (nemmeno la testa), è quasi l’unica carne che si mangia in queste isole e viene servito in due modi: stracotto per ore oppure essiccato e fermentato al vento, con una stagionatura dai sette ai nove mesi (in questa versione si chiama skerpikjøt e viene servito in piccolissime quantità).

Alessio Mesiano

Anche il merluzzo viene seccato al vento e poi ammollato in zuppe invernali ricche di patate, porri, panna ed erba cipollina (la più nota è quella della locanda Fiskastykkið a Sandavágur). Da Ræst, invece, lo trovate fritto e trasformato in chips, oppure finemente grattugiato a mo’ di katsuobushi. Per coerenza e per necessità di bilanciamento dei piatti, anche i pochi vegetali vengono proposti crudi o fermentati. Qui l’attenzione alla sostenibilità si estende anche al mobilio, alle ceramiche, ai tessuti, che sono prodotti localmente, così come al modello imprenditoriale: il team del ristorante lavora solo quattro giorni alla settimana, mentre il tempo restante è destinato alle esplorazioni del territorio e allo studio.

Uscendo da Nýggjastova, l’antica casa in legno che ospita il ristorante, salta all’occhio il disegno di un polpo gigante con i tentacoli carichi di bicchieri di vino rosso: è un’illustrazione di Tóroddur Poulsen, artista e musicista faroese, che ha plasmato la visual identity di Roks, un altro locale che fa parte dello stesso gruppo a cui appartengono anche Ræst e Koks. È una realtà nata in piena pandemia come risposta “attiva” verso la città: «Tutto è iniziato in modo veramente istintivo e immediato, prendendo i piatti dalle scorte che avevamo in magazzino e facendo il business plan in pochi giorni», mi racconta Karin Visth, sommelier e manager dei tre ristoranti. «Con la chiusura dei confini la gente capì che si poteva rivivere la socialità senza rischio di contagio perché nessuno aveva accesso alle Fær Øer, se non attraverso laboriose procedure di quarantena. La risposta che ricevemmo dagli abitanti fu calorosa e inaspettata». Roks, che si concentra soprattutto sul pescato, sui frutti di mare, sui molluschi, sulle alghe e su eventuali arrivi extra di giornata, ha un approccio decisamente più casual rispetto ai suoi “fratelli”.

Quando si parla di New Nordic Cuisine è quindi corretto allargare il confine anche a queste realtà, il cui lavoro di ricerca gastronomica sul territorio è iniziato pionieristicamente più di dieci anni fa. Grazie alla visione e alla determinazione di uno chef quale Poul Andrias Ziska, l’apertura di Koks nel 2011 ha segnato un vero e proprio punto di svolta. Il patrimonio naturalistico dell’arcipelago è stato reso parte integrante di una ricerca culinaria fatta di accostamenti, tecniche ed esplorazioni di gusto. Una cucina irripetibile altrove, che cerca di essere autonoma al cento per cento in termini di approvvigionamento. Il racconto che ne esce è coerente e in costante dialogo con il genius loci, e accetta la sfida di riadattare il gusto di oggi a memorie più care ai nostri antenati che a noi.

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia

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