Nella definizione dell’Oxford Companion to Wine, “terroir” è un termine che descrive l’ambiente naturale di un sito vitivinicolo. Nel volume si fa riferimento alle definizioni che di “terroir” hanno dato diversi autori e ad alcuni elementi che lo determinano, come clima, esposizione solare, collocazione geografica, idrologia e caratteristiche fisico-chimiche del suolo. E se fin qui avessimo sempre trascurato un fattore, vivente e per giunta di proporzioni gigantesche?
Quando si parla di suolo in viticoltura, tradizionalmente il collegamento più immediato è con la sua composizione chimica e morfologica. Pagine e pagine sono state scritte sul modo in cui differenti tipologie di suolo trattengono o meno l’acqua, influiscono sulla crescita della vite, sulla sua capacità di dare frutti e anche sul gusto e sul potenziale di invecchiamento dei vini.
Eppure, raramente tra quelle pagine viene dato spazio a un tema che sta diventando cruciale per l’agricoltura mondiale, vale a dire il microbiota del suolo, quell’insieme di microrganismi – archaea, batteri, virus, funghi e altri esseri viventi minuscoli – che abitano e interagiscono al suo interno, a cui si fa genericamente riferimento con “biodiversità”.
Se ne sa ancora poco, ma si è capito che questa microscopica comunità svolge un ruolo fondamentale per la pianta, oltre ad avere a che fare con l’ambiente e con la nostra salute.
«Si stima che a oggi si conosca solo il 10 per cento dei microrganismi presenti nel terreno. Non sapendo a che cosa corrisponda il cento, meglio andarci cauti». Marco Poggianella è il fondatore di SOP – Save Our Planet. Nata nel 2001, l’azienda sviluppa soluzioni per l’allevamento e l’agricoltura (vite inclusa) che si fondano sul funzionamento del microbiota. «Ciò che l’approccio chimico all’agricoltura ha sempre ignorato», spiega Poggianella, «è che questi microrganismi hanno un ruolo essenziale per le piante, che li allevano per ottenere dal terreno le sostanze di cui hanno bisogno e che hanno imparato ad attrarli in maniera selettiva». Per farlo, le piante secernono gli essudati radicali, complesse miscele di sostanze, spesso simili a quelle che si trovano nei frutti, come zuccheri, acidi e molto altro. «Un 50 per cento dei prodotti della fotosintesi viene impiegato dalle radici, così le piante forniscono nutrimento, modificano il ph del suolo e richiamano batteri e funghi utili a nutrirle e a proteggerle». In sostanza, le piante generano una simbiosi che permette loro di essere più forti e reattive a eventuali minacce, patogene o anche climatiche.
Tra le capacità del microbiota c’è quella di immagazzinare nel terreno l’anidride carbonica presente in atmosfera. «Le fotosintetiche della pianta, trasferiscono il carbonio dall’atmosfera alle radici e prendendolo da lì i microrganismi se ne servono per vivere, fissandolo nel terreno», spiega Martina Broggio, enologa e agronoma che lavora per formare e accompagnare i viticoltori nella cura del suolo. «Le lavorazioni del terreno possono influenzare molto la vita microbica», prosegue Broggio. «Quando sono minime si riesce a rispettare la stratigrafia del suolo con un incremento di sostanza organica, mentre continue lavorazioni sconvolgono l’habitat dei microrganismi rilasciando CO2, impoverendo il terreno e, di conseguenza, le radici e la pianta. Inoltre, senza un manto erboso permanente e quindi radici e microrganismi attivi, il suolo fatica anche ad assorbire e immagazzinare acqua». Questo processo non si osserva soltanto in viticoltura, ma costituisce da secoli una causa di desertificazione e inaridimento, così come il ripetuto utilizzo di fitofarmaci e prodotti chimici che danneggiano il microbiota. Per questo da anni ci sono numerosi studi che approfondiscono il tema (ad esempio, in Italia, le ricerche del professor Andrea Squartini dell’Università di Padova).
In caso di eventi atmosferici straordinari inoltre, un terreno sano e vitale contribuisce al funzionamento ottimale della pianta e alla sua capacità di reazione, ad esempio in condizioni di caldo estremo. «Abbiamo osservato che se le radici assorbono meglio l’acqua, il sistema di traspirazione della pianta riesce ad abbassare la temperatura sulle foglie anche di due-tre gradi centigradi in più, sviluppando più linfa e nutrendo meglio i grappoli. Quando l’acqua finisce, invece, la pianta chiude gli stomi e la risparmia, ma il ciclo di produzione di sostanze si blocca e la temperatura sulle foglie aumenta», dice Broggio.
Non sarebbe finita qui. Parte della flora batterica presente nel nostro intestino è composta dagli stessi microrganismi che popolano il terreno e che ci derivano dalle piante attraverso l’alimentazione. Uno studio del CREA diffuso un paio di anni fa evidenzia il nesso tra alimentazione, microbiota e sistema immunitario, sottolineando come alcuni regimi alimentari favoriscano la biodiversità intestinale, in particolare gli alimenti fermentati
Tornando alla viticoltura, bisogna considerare che il microbiota cambia da un territorio all’altro. «Nel vino si parla di terroir in relazione alla composizione chimica del suolo, ma in realtà bisognerebbe parlarne anche in relazione alla presenza di microrganismi», precisa Marco Poggianella. «Tra Valpolicella, Etna o Montalcino i microrganismi autoctoni non sono necessariamente gli stessi e si propagano da anni e anni». Di quella cosa chiamata terroir, quindi, forse si sa ancora poco. E, come suggeriscono gli studi condotti dal Robert Mondavi Institute for Wine and Food Science della University of California e dall’Institute of Food, Nutrition and Health di Zurigo, che parlano di “microbial terroir” proprio dai microrganismi sembrerebbero dipendere, almeno in parte, anche il gusto dell’uva e del vino.