Nel mondo si potevano prendere così tante direzioni. La vita era un piano che conteneva rette infinite, ognuna di loro era una potenziale traiettoria. Vittorio era sempre stato indeciso su quale direzione prendere: scegliere una via breve ma trafficata o lunga ma sgombra; selezionare il piatto di un menù; se dire a un amico che la giacca gli stava male, che la moglie l’aveva tradito; sposarsi o invecchiare da scapolo.
Sugli sci era tutta un’altra cosa. Perché c’era la gravità. E la gravità ti indicava incontrovertibilmente una direzione; la valle, una meta. Gli altri corpi non erano entità con cui interagire, era invece socialmente accettato – anzi incoraggiato! – schivarli. Sciando, Vittorio si sentiva libero, questo è certo. Ma libero di una libertà che non dava angoscia, quella di una stella che vola nell’universo sconfinato e allo stesso tempo segue l’orbita perfetta del proprio destino. Nella sua storia con Tiziana invece si era sentito un asteroide senza meta – convivere, fare un figlio, o non dover rendere conto a niente e nessuno? – era stato incapace di assestarsi su un’orbita definita, e alla fine lei l’aveva giustamente lasciato.
Ed eccolo precipitare lungo le piste. Quel suono delle lamine che scivolavano sulla neve aveva il potere di rilassarlo, di farlo sentire nel proprio posto nel mondo, quel suono era la sua voce più autentica.
Era una bella giornata d’alta montagna, quando il bianco della neve, sullo sfondo blu elettrico del cielo, sembra ancora più luccicante, prezioso. Gli piaceva prendere la prima seggiovia della mattina, mentre saliva gli piaceva picchiare le racchette contro la protezione metallica abbassata sulle sue cosce e sentire il suono che riecheggiava nel canalone tra i cimbri muti.
Ma fu solo verso le 10 che la vide. Lui stava risalendo per un’altra seggiovia, più in alto, che portava all’imbocco di una pista nera. Ed eccola, là giù, lei: stava sciando su quella pista nera. Faceva freddo ma non portava la cuffia: la sua coda bionda le dondolava sulla schiena a ogni curva. Teneva gli sci uniti e piegava le gambe in bello stile, ma anche con un non so che di indolente, come se non avesse fretta di arrivare in fondo, come se avesse fiducia nel futuro, nella meta. Gli infondeva una calma mai provata, gli sembrava entusiasmante condividere per caso un punto spazio-temporale con quella presenza, e contemporaneamente gli sembrava scontato, giusto, come se tutto fosse già deciso. Lei indossava una giacca Colmar bianca, su cui alcuni tratti neri, partendo dalle spalle e dal costato, convergevano in due linee ai lati della cerniera, due linee che seguivano la cerniera in parallelo, verso il basso, verso valle. A Vittorio parve di notare il burro-cacao rosa sulle labbra di lei, e si ritrovò a domandarsi che gusto potessero avere.
Arrivato in vetta, si diede la spinta giù dal seggiolino e si lanciò a uovo sulla pista, all’inseguimento. Quando fu sul muro dove l’aveva notata, provò un piacere quasi sensuale nel ricalcare quelli che credeva essere i solchi tracciati da lei. Con gli sci ai piedi Vittorio, così impacciato con le parole e i gesti da pianura, avrebbe potuto parlarle con le curve, mimare i movimenti dell’amore con parabole che si allontanano e poi sempre ritornano. Ma, di lei, nessuna traccia. Nemmeno nella baita alla fine della nera. Controllò perfino nella toilette delle signore, trascinando gli scarponi pesanti sulle piastrelle e fingendo di essersi sbagliato. Niente. Dov’era finita?
Ma poi, una volta fuori, Vittorio notò la sua lunga coda bionda sulla schiena della giacca Colmar bianca: lei stava per sedersi sulla seggiovia. Quanto odiò i cinque o sei sciatori che lo separavano dai tornelli. Non poteva urlare, chiamarla: con che nome, poi? Tuttavia, come se lei avesse sentito l’urlo dei pensieri di Vittorio, delle sue decisioni abortite, si girò, lo guardò, e gli disse con una voce suadente, che si rivelò più bassa di quello che Vittorio aveva creduto necessario: “Ti ho visto scendere sulla pista”, gli disse, “ma dov’è che hai tanta fretta di arrivare?” Aveva gli occhi dello stesso blu elettrico del cielo, due finestre spalancate.
“Ci vediamo su?” le rispose Vittorio. Lei annuì, girata di tre quarti, in prossimità del primo pilone. “Ti aspetto” gli disse. E in quel momento Vittorio sentì un male da cani alla gamba destra. Un ragazzino non era riuscito a frenare, era scivolato, e gli era arrivato di spalla, con tutto il peso del corpo, contro il ginocchio. Frattura del collaterale – Vittorio scoprì in seguito. Dovettero chiamare l’elisoccorso, non la vide più.
Era ormai passato un anno da quella giornata, Vittorio aveva ripreso a sciare con prudenza, un’altra relazione era finita perché lui non aveva avuto il coraggio di non farla finire, e intanto aveva fantasticato per mesi su quella sciatrice bionda, un’ipotetica anima gemella di neve e gravità, aveva fantasticato sul suo modo di dare del tu al tempo, sulla sensazione di essere entrambi destinati a seguire le stesse traiettorie, mossi dalla stessa forza, per incontrarsi giù a valle. Pensava a tutto ciò su una panchina del parco milanese dietro casa sua. Aveva nevicato, Vittorio aveva affondato gli scarponcini nei sentieri immaginando che fossero in discesa. Adesso, lì seduto, la neve penetrava nel tessuto dei jeans e gli gelava le cosce.
Vide avvicinarsi al prato che aveva di fronte una ragazza in giacca nera. Qualcosa in lei gli ricordava la sciatrice bionda ma i capelli di quest’altra donna Vittorio non poteva vederli, erano raccolti in una cuffia di lana. Lei procedeva incerta sulla neve fresca mentre quella sciatrice, sulla neve, era così sicura.
La ragazza gli diede per un attimo le spalle: sulla schiena compariva un logo di Colmar sormontato da una colomba bianca, le ali spiegate, lo sguardo puntato all’orizzonte. La ragazza si sedette su una panchina accanto a quella di Vittorio, si chinò, raccolse con i guanti un po’ di neve e prese a modellare lentamente una palla che luccicava con timidezza nella luce bluastra del pomeriggio invernale.
Vittorio avrebbe potuto chiederle se si fossero già incontrati da qualche parte, magari sulle piste?, ma sarebbe risultato un vero impiastro. E quanto sarebbe suonato patetico chiederle di alzarsi gli occhiali scuri sulla fronte per mostrargli gli occhi, per vedere se erano di quel turchese a cui lui aveva così spesso ripensato? Che fare? Dio, quanto avrebbe voluto che il futuro fosse un piano inclinato, cioè un destino, e invece di nuovo il futuro gli si presentava come la disorientante pianura del caso.
Lì, in quel parco, non poteva sciare, ma poteva parlarle comunque con la neve, dimostrarle che con quell’elemento così raro in città, così malleabile, lui era comunque in grado di costruire qualcosa di bello, una nuova creatura. Si inginocchiò davanti a lei e ammonticchiò la base di un pupazzo di neve. Lo sfiorò un pensiero folle: se lei si fosse chinata accanto a lui e l’avesse aiutato a costruire, sopra le gambe, il corpo del pupazzo, forse le loro mani si sarebbero sfiorate, distrattamente accarezzate, forse quella nuova creatura avrebbero potuto crearla insieme.
Ma lei adesso aveva lasciato cadere a terra la palla e osservava le fronde spoglie dei pioppi ondeggiare appena nella brezza del tramonto. Però Vittorio ormai aveva iniziato, e questa volta avrebbe finito, sarebbe andato fino in fondo anche se era in piano, succedesse quel che succedesse.
Ecco quindi una seconda sfera per formare il corpo del pupazzo, e poi una terza per la testa. Scavò nella neve del vialetto fino a raggiungere due sassolini grigiastri di ghiaia, gli occhi del pupazzo. Due rami di pioppo per braccia. Si frugò nelle tasche, trovò una biro, ed ecco il naso.
“Che nasino fine” rise la ragazza. Lui la guardò con le mani sui fianchi. “Peccato solo che abbia un raffreddore d’inchiostro” rise Vittorio a sua volta. Con le dita che gli tremavano per l’emozione di averle parlato – possibile fosse proprio quella voce che aveva già sentito sotto la seggiovia? – Vittorio appoggiò la propria cuffia bianca col pompon sulla testa del pupazzo. Attorno al collo gli girò la propria sciarpa, sempre bianca.
“Ma avrà freddo, col corpo tutto scoperto” disse la ragazza. “Potrei dargli la mia giacca”. Vittorio la squadrò, aveva le guance arrossate per il freddo, così piene, pulsanti di vita, quella vista gli scaldò il cuore. “Ma è tutto vestito di bianco, si mimetizza nell’inverno come un animaletto della neve, mentre la tua giacca è nera” le disse.
“Non è solo nera” disse lei. Si alzò, si tolse la giacca, e girò le maniche. “È la giacca double-face che hanno fatto quelli di Colmar per il centenario dell’azienda. Da un lato ci passeggio in città, ci prendo la metropolitana, ci esco a cena. Dall’altro ci vado sulla neve” disse a Vittorio. Ed ecco la giacca che lui aveva visto sulle piste, i tratti neri e convergenti, le due linee parallele alla cerniera. Loro due. “Quante cose diverse di possono fare con una sola giacca” disse Vittorio.
“Quando sai chi sei, puoi fare tutte le cose diverse che vuoi” disse la ragazza. Poi vestì il pupazzo con la propria giacca, la punta dei rami sbucavano fuori dalle maniche e indicavano in obliquo le fronde degli alberi. “Senti” le disse Vittorio, “mi prenderai per matto ma vorrei chiederti una cosa”. “Ti ho già preso per matto” disse lei. “Per questo ti ho parlato” e rise ancora.
La sua risata riecheggiava nella pianura con suoni ampi e cristallini: gli ricordavano quelli delle racchette contro la seggiovia nel silenzio delle mattine in montagna. D’istinto raccolse un po’ di neve, la strinse nel pugno, e disse alla ragazza: “Potresti levarti la cuffia?”. Lei si porto una mano sulla testa e liberò una coda bionda che puntò verso terra con la festosa inesorabilità di una cascata.
Vittorio fissò le due linee nere, parallele alla cerniera, sulla giacca che vestiva il pupazzo, e provò un brivido come se tutto il suo futuro potesse essere contenuto nella presa di neve che stringeva nel pugno, sentì tutta la propria vita in mano, tutta lo loro vita. Si sentiva scendere lungo il pendio dei secondi e degli anni, verso la valle del futuro, una creatura che avrebbero modellato insieme. Per la prima volta gli sembrava di sapere chi era. “Mi chiamo Vittoria” gli disse la ragazza porgendogli la mano.