Un segreto sussurrato e gelosamente trasmesso da una generazione all’altra. La possibilità di indossare un abito lontano dalle standardizzazioni che non ci assomigliano, ma cucito indosso a un corpo con le sue naturali imperfezioni, che saranno demistificate tramite ago, filo e metri di georgette di seta. Più o meno così, i couturier e le clienti di ieri e di oggi, hanno storicamente considerato l’haute couture, l’alta moda, quell’area del mercato dell’über-lusso che realizza abiti su misura per un pantheon di donne (ma anche uomini, a vedere le ultime sfilate di Valentino) dotati del portafoglio adatto all’acquisto.
Fornito di un suo calendario delle sfilate (a gennaio e a luglio, a seguito della fashion week dedicata all’uomo), il comparto rappresenta il non-plus-ultra del settore, il sogno intinto nel glamour e nello champagne, che fa subito venire alla mente cinematografici red carpet e feste orchestrate dal gusto di Truman Capote, come quel leggendario Black and White Ball del 1966 organizzato dal salace scrittore americano e fotografato da Cecil Beaton, al quale partecipò un conclave di eletti, tra i quali Marella Agnelli con copricapo di piume e lungo caftano bianco ricamato (era della stilista Mila Schön).
Un sogno che oggi è democratico nella sua diffusione, e si mostra ai comuni mortali sugli schermi dei telefonini e tramite gli account social delle maison, ma le cui regole di ammissione sembrano (e sono) retaggio ultimo di un mondo antico, figlio spurio delle gilde medievali, voluto dal couturier Charles Frederick Worth. Il mercuriale inglese fu in effetti responsabile dell’armadio della imperatrice Eugénie, moglie di Napoleone III, e di diverse figure di spicco della fine del Ottocento, tra cui l’attrice Sarah Bernhardt e la matriarca dei Vanderbilt (Alice), primigenia famiglia dell’Old money newyorchese. Worth, però, non fu solo correo della diminuzione esponenziale delle crinoline, ma anche principale promotore della creazione de la Couture Parisienne, nel 1868.
Dal 1975, l’organizzazione opera sotto il più largo ombrello della Fédération de la Haute Couture et de la Mode, adottando, per l’affiliazione al suo gruppo più ambito, le stesse regole definite nel 1945: sfilare a Parigi due volte l’anno durante la fashion week dedicata, avere un atelier sempre nella capitale francese che impieghi almeno quindici risorse a tempo pieno e venti lavoratori esperti, e infine produrre collezioni costituite da almeno cinquanta modelli per il giorno e per la sera. In cambio, tra i vari benefici degli affluenti clienti, c’è quello incorporeo ma ambito di poter realizzare il proprio abito a stretto contatto non con lo store manager della boutique, ma a tu per tu con lo stesso stilista, emanazione diretta e unica dello spirito della maison.
Un modus operandi che ha avuto un periodo di sfolgorante successo ai suoi inizi, nel 1859 data che coincide con la fondazione della House of Worth, brand del couturier padrino della couture, e che in seguito vide il suo primato sfidato e poi sconfitto dalla moda industrializzata dei primi anni Sessanta del secolo scorso (nata in Italia e poi replicata di malavoglia in Francia). Per questo, il sociologo marxista Gilles Lipovetsky aveva definito l’haute couture “il sistema dei 100 anni” nel libro L’impero dell’effimero, del 1987.
Ma laddove un abito ha un prezzo di partenza di 100.000 euro – il pubblico con un portafoglio da permetterselo equivale all’1 per cento della popolazione mondiale – e la sua costruzione artigianale richiede il dispendio di molte settimane, ci si chiede quale sia il senso della haute couture nel mondo odierno, i cui ritmi vertiginosi sono ulteriormente accelerati dai social media. I suoi show gargantueschi, la cui realizzazione raramente è a buon mercato, valgono il prezzo della candela o sono soltanto misurazione al righello dell’ego dei conglomerati e dei designer?
«L’impatto sull’operatività delle aziende è spropositatamente più ampio dei ricavi che l’haute couture genera», ammettono Filippo Bianchi, managing director e senior partner di Boston Consulting Group (BCG), e Lucia Casagranda, consultant di BCG. «Se l’haute couture genera solamente il 2-5 per cento dei ricavi per le maison, le risorse che i brand investono per sostenerla sono importanti. Dai costi generati dall’attività degli atelier (interamente dedicati alla realizzazione dei capi haute couture) all’attenzione devoluta all’ispirazione e alla ricerca creativa degli stilisti, ai budget sostanziosi impiegati per le sfilate, è facile comprendere che le entrate originate da questa linea di prodotti non sono sufficienti a coprire i costi operativi. Ma l’errore è proprio questo: misurare il valore dell’alta moda solamente con il fatturato».
Per togliersi ogni dubbio, facendo i conti in tasca alle maison, da BCG – multinazionale statunitense di consulenza strategica con novanta uffici in cinquanta Paesi – stimano che il mercato dell’alta moda abbia una valore complessivo tra i 5 e i 15 miliardi di euro. «È complesso fare una stima puntuale del valore di mercato globale», concedono Bianchi e Casagranda. «Rapportato al valore totale del segmento abbigliamento e pelletteria, che equivale a 175 miliardi di euro, si tratta di un mercato relativamente piccolo poiché l’offerta è rivolta a una clientela molto ridotta con limitate occasioni d’uso».
Al netto di profitti assai meno consistenti dei costi sostenuti, però, il segmento è forse provvisto di una qualità immateriale, che regala alle maison quell’aura di inaccessibilità, desiderabile non solo in quanto capace di sopperire a una necessità (vestirsi, proteggersi dalle intemperie) ma anche in quanto portatrice di valori nei quali è auspicabile potersi identificare, per definirsi rispetto a se stessi e alla propria comunità.
È una evoluzione del “cogito ergo sum” cartesiano, che identifica nella vestizione, e non nel pensiero, il processo attraverso il quale validarsi e misurarsi gli occhi degli altri: capitalismo ricoperto di pizzi dévoré. Certo, però, la sua aura di autorevolezza si può espandere a cascata anche su altre categorie merceologiche dello stesso brand, dedicate al mercato di massa.
«Come illustra l’ultima edizione dello studio BCG True luxury global consumer insights, pubblicato in collaborazione con Altagamma, i consumatori identificano i prodotti di lusso con valori quali l’artigianalità, l’esclusività e un livello qualitativo generale superiore», spiegano Bianchi e Casagranda. «La rappresentazione visiva migliore di questi valori è senza dubbio l’haute couture. Il lusso, in fondo, senza questo segmento, non esisterebbe, o forse sarebbe un concetto meno affascinante e autentico. Inoltre non esiste nessun altro canale di upper funnel capace di generare lo stesso ritorno e la stessa consapevolezza del prodotto paragonabile all’haute couture e alle sue sfilate».
Per chi non è fluente con il linguaggio, il funnel di marketing è un sistema che canalizza il traffico in un processo di acquisto fatto a imbuto, di cui l’upper funnel costituisce la parte alta, quella che si occupa di acquisire i clienti. «Questo spiega perché gli eventi dedicati all’haute couture non solo continuano a esserci, ma hanno investimenti dedicati sempre più consistenti. In poche parole: l’haute couture è l’espressione in purezza del lusso, ed è la manifestazione del ruolo ibrido che hanno le maison nel preservare sia il lato artistico e artigianale del brand, sia quello più commerciale, orientato ai prodotti del ready-to-wear o anche ai profumi».
Insomma, se l’haute couture ha il compito di essere divertente, folle, e quasi impossibile da indossare, come sosteneva Christian Lacroix, l’obiettivo della sua esistenza oggi è anche quello di espandere la sua aurea di glamour su prodotti accessibili a tutti, succedanei di quell’inarrivabile lusso e acquistabili però dalle celeberrime casalinghe di Voghera di arbasiniana memoria.
Il brand del duo olandese Viktor & Rolf, ad esempio, di proprietà della OTB dell’italiano Renzo Rosso, ha smesso da tempo di produrre collezioni ready-to-wear, preferendo sfilare solo durante il calendario dell’haute couture. Due show annuali immaginifici che accendono i desideri e i sogni dei clienti: impossibilitati a comprare le inarrivabili collezioni di alta moda, i loro denari possono però essere spesi nell’acquisto delle fragranze, come quel Flowerbomb nato nel 2005, bestseller del brand interpretato nell’ultima campagna dalla modella Emily Ratajkowski.
Parimenti ha scelto di operare Jean-Paul Gaultier con la sua haute couture: laddove i profumi della maison sono ancora campioni di vendite ma il suo creatore ha deciso di ritirarsi dall’agone della moda con la collezione haute couture primavera-estate 2020, la creazione dell’alta moda che porta ancora il suo nome è affidata a un designer diverso a ogni stagione, molto simile o anche molto distante (come nel caso del peruviano Haider Ackermann) dall’estetica del vulcanico francese. Un’operazione che ha consentito al brand non solo di rimanere presente nel calendario, ma anche di restare rilevante, attraverso un processo giocoso di risignificazione del brand assai apprezzato dagli addetti ai lavori.
In altri casi, la funzione di questo segmento di mercato può anche essere quella di fungere da laboratorio di sperimentazione – sottile esercizio di soft power – per dimostrare ai clienti e ai competitor gli alti livelli di ingegneristica artigianale raggiunti all’interno dei propri atelier (come nel caso di Balenciaga o di Iris Van Herpen). Infine, per quanto nel 2023 possa sembrare quasi fané, esistono ancora i brand che realizzano vestiti haute couture perché, semplicemente, esistono donne con le risorse economiche e le occasioni adatte a usarli (Chanel, Giorgio Armani Privé).
Nel frattempo, nascono esperimenti di couture eco-consapevole che operano al di fuori degli apparati ufficiali: è il caso di Renaissance, ente non-profit francese che ricicla pezzi vintage delle maison, aggiungendovi una buona dose di creatività. Le giacche color bronzo sono ricavate da pantaloni di seconda mano di Etro sopra cui si ricamano catene di un’azienda andata in bancarotta; i kilt navy sono traslati su chiffon di seta proveniente dalle giacenze di un atelier ormai chiuso; i vestiti corsetto arancio mandarino sono realizzati con cravatte di vecchie uniformi del personale degli aeroporti parigini. Dietro Renaissance, nato nel 2018, c’è la firma di Philippe Guilet, assistente design di Karl Lagerfeld, e prima ancora di Thierry Mugler e Jean-Paul Gaultier. Dopo aver ricevuto finanziamenti dal governo francese e anche dal gruppo Kering, nel 2019 Guilet ha aperto un atelier a Cité du Vercours, complesso di edilizia popolare a Villejuif, nella periferia parigina, offerto da Action Logement, associazione di sviluppo urbano.
E la differenza con molti degli atelier parigini non è solo nel capo, ma anche nelle risorse umane impiegate: Guilet ha infatti selezionato inizialmente quindici migranti provenienti da Ghana, Marocco, Tunisia, o rifugiati dall’Ucraina e dall’Afghanistan, a cui ha insegnato le metodologie della couture, come il “metodo Grès”, ossia il drappeggio fluido degli abiti brevettato da Madame Grès.
Il progetto ha macinato collezioni – vendute a luglio 2021 alla casa d’aste Drouot di Parigi – tramite le donazioni di privati. In alcuni casi, gli abiti di Renaissance sono finiti sugli schermi di Netflix (nella popolare serie Emily in Paris) e, nel mentre, il suo programma di formazione ha permesso ai suoi primi studenti di trovare impiego negli uffici stile di Saint Laurent, Chloé, Dior e Alaïa. Una variazione originale sul tema couture che forse non farà scuola, ma è utile a dimostrare come la fascia più elitista del mercato del lusso sia destinata a una lunga vita, tramite metamorfosi e reincarnazioni, durando probabilmente ben più di altri cento anni, con buona pace dei sociologi marxisti.