Parla Francesco ManacordaI dibattiti sulla definizione di museo e l’elitarismo dell’arte contemporanea

Intervista al direttore del Museo d’Arte Contemporanea Castello di Rivoli, pronto per un 2024 all’insegna dell’inclusione e del coinvolgimento: «Occorre un pubblico che torni e usi questo luogo come una palestra dello sguardo e delle emozioni»

Ph. Paolo Pellion

C’è un luogo molto speciale a Torino: il Museo d’Arte Contemporanea Castello di Rivoli, che il 20 aprile inaugurerà la sua prima mostra del 2024 con Rossella Biscotti. La location custodisce e promuove una collezione di arte povera in un edificio barocco mai completato. Il non finito si fa contenitore barocco e contemporaneo al contempo, per integrare epoche diverse in un dialogo perfetto che ha per ritornello mostre temporanee. Abbiamo incontrato il nuovo direttore, Francesco Manacorda, giunto a Rivoli dopo la direzione artistica della V-AC Foundation (2017-22) e precedenti esperienze come direttore artistico alla Tate Liverpool e Artissima. 

A nominarlo il 26 settembre scorso una commissione presieduta da Francesca Lavazza, Presidente del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, e composta da Richard Armstrong, che è stato Direttore The Solomon R. Guggenheim Foundation dal 2008 fino a luglio 2023; Andrea Ruben Levi, collezionista, Amico Benefattore del Castello di Rivoli; Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, Presidente dell’omonima fondazione, Presidented; Sir Nicholas Serota, Presidente Arts Council England, già Direttore Tate. Manacorda ha presentato il programma del 2024 e con lui abbiamo parlato della sua filosofia museale.

Francesco Manacorda, Direttore del Castello di Rivoli (ph. Andrea Guermani)

Cosa significa dirigere un museo oggi?
«Significa fare un lavoro doppio, quello della programmazione artistica e delle scelte curatoriali e quello di gestione e organizzazione della raccolta fondi. A questi due impegni se ne aggiunge un terzo: quello della creazione, del mantenimento e dell’ampliamento del pubblico. Dunque ci sono la creazione del contenuto, la parte gestionale dove si possono fare importanti differenze culturali, e la creazione del lavoro sul pubblico».

Rivoli ha un suo pubblico molto affezionato e consolidato, credo.
«Sì, ma si può allargare ancora molto attraverso la valorizzazione dell’unicum che è Castello di Rivoli, tra l’essere un contenitore barocco e non finito e un contenuto che offre visualizzazioni di pensieri, sentimenti, domande. Il Castello è uno spazio intertemporale, con una dimensione di peso specifico perché è una struttura architettonica interrotta, abbandonata e poi ripresa con un intervento strutturalmente consolidante che ha in sé il passato e il futuro. Inoltre, ospita l’arte contemporanea, altra finestra sul futuro. Per questo è intertemporale ed è interessante perché crea affinità elettive tra periodi storici diversi, distanti nel tempo, ma capaci di collegarsi tra loro. E questa capacità di creare collegamenti è la prima attrazione di Rivoli».

C’è stato e non è ancora concluso un grande dibattito intorno alla definizione di museo, termine che necessita di un aggiornamento e di un approfondimento per indicare con esattezza le caratteristiche delle istituzioni museali di oggi. Qual è la sua definizione di museo?
«È un’organizzazione che deve farsi ponte tra la produzione artistica più significativa e un pubblico molto allargato. Nel farlo mette in moto molti lavori diversi, quello scientifico, espositivo, di mediazione e interpretazione. Allora crea un patrimonio collettivo, fatto di acquisizioni, produzioni, saperi artistici e scientifici e della propria collezione. Questo patrimonio è per la popolazione del mondo».

Si è molto parlato anche del problema della fruibilità dell’arte contemporanea, a volte percepita come incomprensibile, respingente, elitaria. Un tema che ha anche a che fare con l’inclusione. Cosa ne pensa e quali obiettivi si pone al riguardo?
«L’inclusione per me deve essere totale, sia rivolta a persone con abilità diverse, sia a culture diverse: accogliere il pubblico più esteso possibile significa abbattere tutte le barriere architettoniche e culturali. E questo è un dovere del museo che ha il mandato da parte di tutti i cittadini e che rappresenta lo Stato in cui si trova davanti ai cittadini di altri Stati. Come si coinvolge il pubblico? Occorre essere il più accessibili possibile fornendo a tutti gli strumenti per capire e fruire delle mostre. Attività speciali, progetti educativi e di accompagnamento del pubblico, ma anche incontri e performance servono a raggiungere questi obiettivi. Rivoli propone forme di accompagnamento per appassionati di altre forme espressive, per esempio la musica, la danza o il cinema, che possono diventare porte d’accesso all’arte contemporanea, insieme a temi inconsueti per un museo, come l’ecologia o l’impatto che la tecnologia ha su di noi. Anche le attività educative per le scuole sono delle potenzialità per convertire le famiglie a nuove abitudini: se i bambini hanno apprezzato la visita al museo, ci porteranno i genitori».

Il direttore di un museo detta una linea curatoriale che organizza lo sguardo dei visitatori. Qual è la sua?
«La curatela si organizza in una narrazione della collezione che propone pezzi degli ultimi trenta-quarant’anni, quindi è possibile parlare del fil rouge che collega produzioni molto diverse tra loro, migliorandone la fruizione. Occorre però un pubblico che torni e usi il museo come una palestra dello sguardo e delle emozioni. Allenare lo sguardo richiede investimenti temporali e tornare al museo consente una maggiore comprensione del cambiamento che avviene in ognuno di noi grazie alla fruizione dell’arte. Andare al museo non è solo un fatto culturale o una lacuna da colmare, ha un impatto sul proprio benessere e sulla propria capacità di comprendere il mondo e i suoi aspetti intellettuali ed emotivi».

C’è un pubblico ricorsivo al Rivoli?
«Sì, ma per quanto riguarda gli eventi: è un pubblico che torna per vedere la nuova mostra. Invece vorrei un pubblico che usa il museo, che lo frequenti per allenare il cuore e la mente».

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