Una ventata di modernità, aria nuova che soffia in una stanza tenuta al chiuso. Al suo secondo romanzo, “Comunismo a Times Square” (Feltrinelli), Giada Biaggi compone il ritratto di una generazione di ventenni che crescono in un mondo globale e incespicano in relazioni sempre parziali, scampoli di, possibilità mai espresse fino in fondo. Conosciamo Agata mentre è intenta a leggere la raccolta di teatro di Sarah Kane, famosa drammaturga inglese morta suicida da un anno, lasciando ai posteri la sua pièce più esplosiva: Psicosi delle 4 e 48. È il simbolo che dà il via alla storia intima della protagonista, sulla scia di un millennio che è appena iniziato ma è già pervaso dall’ombra dell’apocalisse ad allungarsi in mezzo alla rivoluzione culturale, sociale, politica e climatica che sta per incedere.
È difficile trovare nella narrativa italiana contemporanea tanta attenzione per lo spirito del tempo, e intendo anche per gli oggetti, i suoni e le immagini di questo tempo, quasi fosse un’operazione troppo pop, al limite del volgare, far scivolare nella vicenda narrata ciò che è realmente il mondo dei personaggi. Biaggi costruisce invece una mappa di dettagli, fra canzoni, brand famosi, citazioni di film, di opere d’arte, di libri, locali alla moda, che permette al lettore di immergersi nella storia visualizzando con esattezza quanto accade. Non si tratta di semplice gusto per la precisazione, o peggio, di inutili pleonasmi: è l’assetto di quanto vediamo e di quanto risuona nelle orecchie di Agata, o dei suoi uomini, i comprimari di questa parabola, che fa erompere dall’azione la psicologia dei protagonisti. Una scelta raffinata che coniuga bene l’universo pop e la presenza qui e lì di spunti filosofici, sull’orlo di un registro volutamente ironico ma non per questo meno tragico.
Il primo grande e indimenticabile amore di Agata è Walther: si conoscono alla luce di una veranda con finestre all’inglese e si scambiano opinioni sul teatro, lei studia recitazione, lui regia. I dialoghi sono un altro asse portante di questo romanzo. Esatti per misura e musicalità, capaci di far emergere il senso del ridicolo che, a insaputa dei personaggi, s’infila a volte fra le loro coltissime riflessioni. Anche nel caso in cui questo dialogare risulti eccedente, c’è nell’eccedenza la possibilità di rappresentare protagonisti che parlano tanto, ragionano senza sosta, ventenni e poi trentenni che hanno fatto dell’interpretazione del mondo la loro cifra stilistica, ma che poi in quel mondo inciampano di continuo. “Penso che le opere d’arte siano politiche non per il contenuto, ma per la messa in forma di un contenuto. Si può fare un’opera reazionaria che parla di femminicidio e un’opera progressista sulla psiche della moglie di Goebbles!”.
Giovani adulti con il privilegio di sapere le lingue, di studiare all’estero, di provenire da famiglie facoltose quel tanto che basta per avere confidenza fin da piccoli con la cultura, il teatro e i libri, eppure alla fine, anche traslando la semplicità dei dolori che la vita impone loro, come l’abbandono di un padre, quel nodo di sofferenza, sebbene analizzato e sublimato, resta per sempre in gola. Forse è anche questo il senso amaro di un romanzo così divertente come “Comunismo a Times Square”: se soffri, riflettere non serve a niente. Al centro c’è l’assenza di un padre, che spiega tutte le conseguenti disgrazie sentimentali della figlia abbandonata. E qui, i rimandi di Biaggi si moltiplicano in una girandola di citazioni alte, mentre i paradossi dell’occidente si mostrano in questa geografia internazionale che va da Parigi a Vienna, da Londra a Dubai, fino all’immancabile New York, forse ancora il centro del mondo, che accoglie perfino l’eco dei classici.
Il ribaltamento di paradigma di una donna costretta a lasciare le sue ambizioni artistiche a causa della sparizione del padre, e della paghetta genitoriale, è la sua magistrale interpretazione di Fedra. Questo, poco prima di mollare tutto e di arruolarsi come hostess. Una madre innamorata carnalmente del figliastro Ippolito è l’equivalente, in quanto a razione tragica nel contemporaneo, della perdita di un padre sparito per rifarsi una famiglia.
“Mi sono stancata di recitare, papà, di essere qualcuno, e non ho neanche più la forza di creare le condizioni perché io possa essere celebrata un giorno. Pensavo che se fossi diventata famosa il mio cognome ti avrebbe raggiunto, ma non sarà così. Ho pensato che se viaggio in tutto il mondo ho più possibilità di incontrarti, in un aeroporto, in una città dove vivi a mia insaputa.” Ancora parole, stavolta in forma di lettera, ma di nuovo parole che svaniscono con la stessa semplicità con cui, a svanire, sono i giorni.
Si va avanti per inerzia, tentando dopo aver ragionato con piglio analitico sul mondo, per sentirsi ancorati alla complessità di un reale in perenne mutazione, di accaparrarsi una scena madre. Il sopraggiungere di una svolta. E invece niente, l’impasse. Dovrà arrivare la morte, evento eccedente per antonomasia, affinché il sovrabbondare di frasi che non hanno condotto a nulla si tramuti per un secondo in silenzio. Agata è libera da quella che lei stessa definirebbe una “patologica filiazione simbolica”. Lo è dopo l’urto inaggirabile di una verità scontata: suo padre non c’è più.
In seguito al dispiegarsi di tutte le possibili angolazioni con cui inquadrare da una nuova prospettiva il mondo, il deus ex machina pronto a definire finalmente un twist è l’evento tragico per eccellenza. La morte sfugge, per stolidità ontologica, alle riletture o agli esperimenti formali con cui abbiamo cominciato ad aggredire il già noto. Ma attenzione: nessuna posa conservatrice da parte dell’autrice, solo il talento di tessere una deliziosa satira sociale.