Secolo denso“Il tempo degli imprevisti” è un testamento condiviso del Novecento

Il nuovo romanzo di Helena Janeczek colleziona una galleria di personaggi le cui singole vicende traggono linfa dalla verità della storia e dall’invenzione dell’autrice. In questo microcosmo fabula e cronaca s’intersecano con eleganza

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Helena Janeczek torna in libreria con “Il tempo degli imprevisti” (Guanda Editore), e ci consegna il ritratto di un Novecento che vira dal maestoso affresco a cui la memoria storica ci ha abituato allo scorcio in miniatura. La voce ora melodica e ora asciutta della scrittrice, che nel 2018 si è aggiudicata il premio Strega con “La ragazza con la Leika” (Guanda Editore), danza fra un personaggio e l’altro in una galleria che tiene insieme verità e menzogna letteraria, passato e presente, storia comune e storie individuali, fino a restituirci un pezzo di conoscenza in più su un secolo definito da tutti «breve», eppure così denso di stravolgimenti. Fabula e cronaca s’intersecano come fanno i registri del racconto, sempre sospeso fra una visione tragica e un tocco d’ironia.

Siamo nel 1906. Sotto gli occhi stupiti dei suoi abitanti, Milano si trasforma producendo nuovi beni. Fra le ragazze, in molte sognano di diventare ingegnere. «La città cresciuta intorno all’Esposizione Internazionale continuava a riempirsi di un’infinità di palazzine rivestite di quel poco di grazia liberty che accontentava gli acquirenti. Del resto, se i fronzoli non erano tradizione delle grandi famiglie milanesi, perché mai chi non era abituato a contarsi fra i signori avrebbe dovuto dare importanza se il ghirigoro del suo balcone somigliava al ghirigoro della casa accanto». 

La modernità, così impastata di sogni e di affari, s’insinua fra gli arabeschi in pietra dei palazzi, ma anche negli animi di chi guarda al futuro con rinnovata speranza. Poco dopo, nell’estate del 1909, Abigaille Zanetta parte per Macerata con la sua relazione custodita in borsa e, davanti al pubblico del V Congresso nazionale della previdenza, tiene banco sulle casse della maternità: è un successo. Le donne rivendicano il diritto di tutela collettiva e prendono coscienza di essere classe sociale. Un mondo senza padroni è ciò a cui ambisce la nostra protagonista e un intero movimento. 

Le donne prendono coscienza di essere classe politica? Non ancora del tutto, ma a soffiare fra le pagine che Janeczek dedica alle sorelle Zanetta, maestre arrivate a Milano nello scirocco dell’Expo, è un fervore che si schiude al sogno socialista prima timido e poi pieno d’impeto. Lettera della Zanetta mai spedita ad Anna Kuliscioff: «Tu sei stoica, però, e sei un politico»; a differenza della più modesta Abigaille, che partecipa alla costruzione del domani senza prendersi fino in fondo la scena, ma con il desiderio condiviso di vedere in Italia ciò che le socialdemocratiche tedesche stanno conquistando in Germania. 

E tuttavia, la Storia avanza inesorabile fra chiari e scuri e la Zanetta arriva a sentenziare: «Mi dispiace, Anna, ma il vostro riformismo non mi sembra ormai molto dissimile dal miglior cattolicesimo». Tutta l’audacia di chi ha fede in un mondo più giusto trova spazio nelle traiettorie di personaggi che incrociano la Storia dal loro angolo, donne e uomini che assistono e subiscono i grandi avvenimenti del presente restando al margine. 

L’intento dell’autrice diventa allora quello di raccogliere le esperienze di un gruppo, si potrebbe definire un coro greco, nella misura in cui ognuno è testimone della collettività, inabissato nella dimenticanza e di accendere poi, tramite la letteratura, un faro capace di costruire un nuovo racconto. Nelle singole storie che traggono linfa dalla verità della storia e dall’invenzione dell’autrice si finisce per cogliere il senso di un testamento condiviso. Il Noi è formato da tanti piccoli Io: è questo che ci ricorda Janeczek. Per non delegare agli altri la responsabilità del mondo che abitiamo, che si inizi pure a considerarci ognuno parte del tutto. Perfino parte della storia già scritta, grazie alla magia che concedono i libri. 

E così, dall’Expo, eccoci arrivare a Merano, nel 1920, ed ecco il dottor K. che respira l’aria salubre di un cielo senza nuvole. Quale motivo hanno le autorità italiane per spiare la sua posta?, si chiede quest’uomo di chiara marca kafkiana mentre stringe fra le mani una delle sue lettere. Le risposte si accendono nella vena persecutoria a cui K., tormentato dalla corrispondenza con la sua traduttrice, la signora Milena, conosciuta a Praga, si abbandona di giorno in giorno più spaurito. Sospetta di essere al centro di un complotto spionistico, K., e nutre una costante paura «limpida e immensa».

Sono proprio i sentimenti, bruciante materia universale che attraversa i secoli senza cedere al cambiamento, ad avvicinarci alla prospettiva dell’uno e dell’altro. A Venezia, un piccolo mendicante riconosce nella figlia del famoso poeta Ezra Pound la sua compagna di infanzia. A Trieste, lo studente berlinese Hirschman discute la laurea, intanto che l’ombra delle leggi razziali si estende ottusa in preparazione del dramma. Gli eventi collettivi fanno da quinta ai piccoli e grandi drammi di una vita normale. «Il tempo vola o si ripete, che fa lo stesso». Il tempo, in qualsiasi sequenza della storia, presta il fianco agli imprevisti. Ma dentro ogni caduta, ci ricorda Janeczeck con il suo romanzo, oltre ciò che il tempo ha cristallizzato per sempre, esiste uno spazio per riflettere sulle possibilità, i motivi, e tutte le ragioni che si annidano dentro il passato. È lo spazio della letteratura.

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