Un importante quotidiano italiano, laico e de sinistra, di quelli che in questi giorni hanno riempito le loro pagine di appelli contro il ritorno del fascismo, ha definito come frutto di «un cavillo» il clamoroso annullamento della condanna di Harvey Weinstein. Condanna in primo grado che era arrivata al termine di un processo in cui la Corte aveva concesso all’accusa di ascoltare in aula testimoni «Molineux», ossia autorizzati a testimoniare su crimini di cui l’imputato non è accusato, dal nome di un precedente giudiziario del 1901.
La sentenza Molineux (e quella Sandoval) esclude che nei materiali di prova da sottoporre alle giurie popolari – non tenute a motivare le loro decisioni – ci possano essere elementi e circostanze suggestive sulla personalità e i comportamenti degli accusati che non abbiano diretta rilevanza per le specifiche accuse mosse nel processo. Nel caso Weinstein, come spiegato anche da Guia Soncini, i testi hanno riferito di scenate isteriche, comportamenti arroganti, e imbrogli attribuiti a Weinstein per descriverne une personalità immorale.
La Corte di Appello di New York in uno dei rari casi di annullamento ha stabilito che con ogni probabilità Weinstein è un porcaccione, ma che comunque ha diritto a un giusto processo. E che non può essere condannato per ciò che è ma esclusivamente per ciò che ha fatto, quando costituisce un reato previsto dal Codice penale.
La giudice dissenziente Madeleine Singas, però, ha sollevato dubbi sulle conseguenze della sentenza, puntando il dito contro i rischi legati a una giurisprudenza che ponga in dubbio la testimonianza delle vittime sulla mancanza di consenso all’atto sessuale, anche nei casi in cui, come in quello di Weinstein, le donne che hanno denunciato hanno ammesso di aver continuato a frequentare lo stupratore e di aver avuto con lui rapporti sessuali consenzienti.
Quello che i giudici di secondo grado hanno affermato è semplice e di assoluta civiltà. È il principio di stretta legalità che, a partire dalla Magna Charta e dall’Habeas Corpus del tredicesimo secolo, sino al Bill of Rights della Glorious revolution inglese del 1686 e alle varie costituzioni e dichiarazioni sui diritti umani, costituisce il fondamento dello Stato di diritto e della civiltà occidentale. Impone che un cittadino possa essere processato per una accusa circostanziata di aver commesso un reato chiaramente indicato nelle leggi e che l’imputato deve conoscere. Quindi, non può essere processato per fatti che per quanto riprovevoli e che denotano una personalità immorale, non costituiscono reato. C’è stato un unico esempio nel diritto moderno in cui uno Stato permise questo: quello della Germania nazista.
Mentre i giudici statunitensi, oltre un secolo fa, con la regola Molineux ponevano un preciso confine all’abuso dello strumento processuale, imponendo il diritto di un imputato ad essere giudicato per i suoi effettivi reati e non per la sua personalità, l’Europa incubava il germe del totalitarismo anche tramite dottrine giuridiche (quella di Carl Schmitt in particolare) che giustificavano l’autoritarismo in nome della difesa sociale e della necessità «dello stato di eccezione» contro il disordine istituzionale.
Il regime nazista varò un codice penale che tra i principi fondamentali poneva quello che Francesco Forzati spiega come «colpa d’autore» (Tatёrtyp), per cui «alla centralità del fatto e della colpevolezza (per il fatto) si sostituirà la colpevolezza per la condotta di vita, desunta dall’antisocialità e dalla indegnità morale espressa dai comportamenti». Fu così che si giustificarono le persecuzioni degli «esseri asociali» come zingari e omosessuali. E gli Ebrei.
A me sembra che, dietro determinati pregiudizi e campagne politico-giudiziarie, oggi si celi il ritorno della nefasta colpa d’autore, che persegue e colpisce condotte e categorie in ragione di personali pregiudizi etici e razziali.
Non è forse un caso che determinate dottrine e movimenti siano fioriti in un’era dove è ritornata l’esecrazione politica dell’«ebreo», così come gridavano a Milano durante le manifestazioni del 25 aprile. Arrivo persino ad accomunare a questo la caccia al fascista aperta dalla stessa stampa, che giustifica e protegge alcune indegne proteste universitarie che altro non sono che rigurgiti nazistoidi. «La responsabilità è personale», non razziale o sociale: è un dettato costituzionale, e prima ancora di civiltà, e vale per tutti. Che poi Weinstein sia ebreo è una straordinaria coincidenza.