L’accappatoio.
L’accappatoio proprio non mi dà pace.
Ovunque, nelle storie del #metoo, a un certo punto spunta quest’accappatoio…
Non nel corso di una vacanza in spiaggia. Non a casa, in camera da letto. Bensì in ufficio. Durante un colloquio. In albergo. Durante un colloquio. In un contesto simulato come professionale.
Ma che razza di ossessione è questa dell’accappatoio?
Proprio non lo capisco. Dico sul serio. Proprio non capisco la scena. Lo svolgimento. Quale dovrebbe essere lo scopo. E nessuno lo spiega. Né durante, né dopo, ovvio. Bisogna arrivarci da soli.
Donne giovani o più anziane, colleghe, collaboratrici, dipendenti di hotel, stagiste, donne con cui questi uomini lavorano già da parecchio o che non conoscono, donne che si aspettano di vedere un tizio in completo, in jeans, con qualunque cosa addosso, ma in ogni caso vestito, donne che vengono convocate e poi:
ta-ta-ta-taaan,
entrata in scena in accappatoio.
Non riesco a smettere di immaginarmelo. Non so perché ma visualizzo solo accappatoi di spugna bianca. Di solito simili tiranni indossano seta. Maiocosaneso. Da quando sento queste storie sto sviluppando un rapporto molto disturbato già con il mio, di accappatoio.
Il saluto in accappatoio – ma che diavolo è? È il prologo dell’attesa sottomissione? Un invito sessuale? È orgoglio? Ehi tu, guarda che bel pisello che ho? Ma sono seri? Una donna si presenta per un colloquio e, in maniera del tutto gratuita e fuori contesto, si ritrova davanti un pisello… Potrebbe essere l’inizio di una barzelletta. Tipo quelle sui carabinieri di un tempo. «C’è un carabiniere con uno spazzolino al guinzaglio.» Questa invece inizia così: «C’è un pisello che entra in un ufficio in accappatoio…»
E ciò dovrebbe accendere il desiderio? Ma di chi? E che tipo di desiderio suscita nel padrone del pisello? Desiderio di umiliare?
Non viene mostrato il corpo denudato, ma la capacità di controllare, la possibilità di disattivare tutto ciò che si conviene (in un contesto lavorativo), la possibilità di dominare, di umiliare, a proprio piacimento, ogni volta che se ne ha voglia. Ancora meglio, quindi, se non si addice alla situazione, ancora meglio se va contro tutte le forme, contro tutto ciò che normalmente si addice a un ufficio o a un colloquio, contro ciò che normalmente rientra nel desiderare: voglia reciproca e tenerezza, passione e dedizione nei confronti di un’altra persona.
L’accappatoio è sempre fuori posto.
Finora non c’è stato nessun racconto che facesse spuntare l’accappatoio in maniera innocua o adeguata o seducente. Nessun racconto in cui una coppia volesse mettersi qualcosa addosso dopo una notte d’amore, nessun racconto in cui un uomo volesse eccitare una donna
– o una donna un’altra donna, un uomo un altro uomo, una donna un uomo – lasciandosi fissare, esponendosi, rivelandosi allo sguardo altrui prima in accappatoio, poi senza. Nessun racconto in cui l’accappatoio celasse qualcosa da scoprire prima lentamente, la propria nudità, la corporeità vulnerabile.
da “Sì significa sì”, di Carolin Emcke, La Tartaruga – Baldini + Castoldi, 2021, pagine 96, euro 15 (in uscita il 20 gennaio)