Ordinariamente mobiliL’autonomia poco differenziata di un milanese al Sud e un napoletano al Nord

In “Spaesati”, Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo confrontano le proprie esperienze di pendolarismo lungo l’Italia tra ambivalenze, tensioni e desideri

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“Nord e Sud uniti nella lotta”. Era uno degli slogan intorno al Sessantotto. Goffredo Fofi scriveva della sua mensa dei poveri a Napoli; i sociologi torinesi e milanesi si interrogavano sulle ragioni della relativa assenza di mobilitazioni collettive al Sud; Danilo Dolci, triestino, aveva già scritto a Palermo “Banditi a Partinico” e “Spreco”; d’estate, noi studenti andavamo a fare seminari sul Gargano. Anch’io andai al Sud, poco tempo dopo, a fine anni Settanta. Sono nato e cresciuto a Milano, verso i trenta anni mi sono trasferito in Calabria, vicino a Cosenza. Ho fatto un’emigrazione all’incontrario. Non è un’espressione mia, me la dicevano i compagni di scompartimento nei lunghi viaggi in treno, allora: «”Come? lei è di Milano e lavora al Sud?” e non capivano. Se poi spiegavo che mi ero trasferito per amore era peggio: “Ah, ha sposato una calabrese…”. No, una tedesca».

La donna con cui stavo era arrivata a Milano da Francoforte, e poi aveva avuto un incarico all’Università della Calabria; avemmo una figlia; io per un po’ lavorai in una scuola di Milano, e alla fine decisi di raggiungerle. Viaggio per amore, viaggio-avventura. Non me ne sono mai pentito.

Dopo mia moglie, anch’io ho vinto un concorso all’Università della Calabria. L’Università era appena nata. Faceva parte di un piano di investimenti straordinari. Quasi contemporaneamente nacquero altre nuove università nel Sud, a Salerno, a Macerata, altrove. Quanto a Cosenza, negli stessi anni era arrivata l’autostrada, a Lamezia nasceva un aeroporto, fra Cosenza e il mare veniva scavata una galleria sotto l’Appennino. I trasporti modificano la geografia: fino ad allora il cosentino era stato quasi separato dal resto dell’Italia.

Per molto tempo gli amici milanesi mi hanno chiesto: «Ma… e com’è vivere al Sud?». Ma quale Sud? Napoli? Taranto? La Locride? Avellino? Genova non assomiglia a Sondrio, perché il Sud dovrebbe essere tutto uguale?

L’Università di Cosenza sta in Italia, ma più che alle università italiane somiglia a quelle americane. È modellata sui campus di laggiù: un ampio centro residenziale, servizi, centri sportivi, cinema. Una strada serpeggiante fra gli ulivi e un ponte uniscono tutti gli edifici. Quando nacque attirò insegnanti da tutta Italia e da molti altri paesi. I miei due bambini giocavano nell’orto botanico dell’Università, scorrazzavano in bici tra gli alloggi, andavano all’asilo dentro al campus.

Io pendolavo. A Milano erano rimasti i miei genitori e molti amici.Il pendolarismo fra città che possono essere anche molto lontane fra di loro è una cosa comune nelle vite dei professori d’università. Nel corridoio dove si affaccia la mia stanza in dipartimento, il collega della stanza a fianco viaggia fra Milano e Cosenza ogni settimana; due stanze in là un’altra collega va su e giù da Bologna. Un altro la famiglia l’ha a Catania, e quelli che ce l’hanno a Roma sono parecchi.

Non riguarda solo il Sud: una mia collega pendola fra Modena e Milano, un’altra tra Bologna e Firenze, un altro fra Torino e Trieste, una cara amica tra Milano e Roma; il campione di chilometraggio viaggia tra Siena e Francoforte.

Non si tratta di migrazioni. Piuttosto di vite disposte in più luoghi, vite a elastico. Non riguarda solo i professori. Abitare e lavorare in più città è oggi una condizione assai frequente. È un’esperienza che si affianca, radicalizzandola, a quelle del pendolarismo su base giornaliera che coinvolge milioni di persone.

Per i più giovani, quelli che appartengono alle generazioni che hanno cominciato a muoversi con i programmi Erasmus e con i voli low cost, i luoghi diversi fra cui si dipana la vita si moltiplicano. Non è che si lasci una città definitivamente per andare a vivere in un’altra (anche se può accadere), è piuttosto che la mappa delle vite si slarga, ha molti centri: gli amici abitano in un posto, la ragazza in un altro, e il lavoro sta in un altro luogo ancora, che peraltro, dato il carattere temporaneo di molti posti di lavoro oggi, cambia spesso.

Vivi, ti sposti, ciascuno si muove secondo il panorama di opportunità che percepisce; con molti dei posti in cui sei stato restano legami, altri si creano con i luoghi dove vanno i tuoi cari. Ne parlo con una coppia di nonni in aereo, marchigiani: vanno a trovare figlia e nipoti in Svizzera. L’altro figlio è in Canada.

Certo, queste vite mobili sono possibili solo a certe condizioni. Intanto, devi avere il diritto di spostarti. Poi, sul piano individuale, è necessario poter spendere in trasporti. Sul piano collettivo, conta la disponibilità di carburanti. In un libro che si intitolava “Vite mobili”, Anthony Elliott e John Urry notavano che l’incremento enorme della mobilità di questi ultimi decenni è possibile fin tanto che durerà il petrolio. Che non durerà a lungo. Poi, o si trovano altre fonti di energia a costo accessibile, o ci si muoverà di meno.

Ma ci sono anche dei costi culturali, psicologici. Ci si adatta, certo. Ma a cosa? Forse a sganciare identità e dimora? È quello che suggerivano alcuni anni fa David Morley e Kevin Robins. Il loro libro si chiamava “Spaces of Identity”. Riconoscevano l’esistenza di una serie di cosmopolitismi più e meno involontari: a un estremo ci sono i commuters, quelli che ad andare e tornare dal lavoro passano diverse ore al giorno, all’altro estremo gli esuli. In mezzo una immensa varietà di movimenti. 

A volte si tratta di percorsi tragici, ma spesso di percorsi ordinari, che caratterizzano nell’insieme il mondo odierno in modo tale che nessuna identità sembra più formarsi sulla base dell’appartenenza a un luogo solo. Indubbiamente vi sono persone più mobili, altre più stanziali, ma il punto è questo: «Possiamo immaginare una identità, una coscienza, – scrivevano – basate sull’esperienza di non avere dimora, o addirittura di non avere la necessità di averla?». Vite ordinariamente mobili. Io e Massimo non siamo esattamente pendolari né siamo rifugiati o esuli. Fra questi due estremi, non sappiamo neanche bene come nominarci.

“Spaesati”, di Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo, il Mulino, 224 pagine, 18 euro

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