Qual è più grave, tra le sindromi più immediatamente individuabili del presente? La società della risacca dell’alfabetizzazione, o la riduzione a nicchia per feticisti delle donne emancipate? E se le due cose fossero legate?
La società per cui l’alfabetizzazione è un relitto è ovunque, nelle vendite stratosferiche dei libri per chi non sa leggere, nella riduzione delle edicole a spacci di giocattoli e figurine, nei candidati alle elezioni che si affrettano a dichiararsi interessati sempre e solo ai consumi culturali per tredicenni ritardati: il Radio Times ha chiesto ai politici inglesi cosa guardino, Sunak ha risposto “Bridgerton”, Farage “Emily in Paris”.
Il venir meno dell’emancipazione femminile, estinta – come sempre accade alle cose che si danno per scontate – dalle generazioni dalla mia in poi, quelle che si sono trovate pronta la pappa di tutti i diritti già pronta, è anch’esso ovunque, in tutti i TikTok e gli articoli e i consumi di ragazze interessate a tutto tranne che a sviluppare una personalità, a mantenersi, a bastare a sé stesse.
I giornali – anche loro sofferenti del riflusso dell’alfabetizzazione – si svegliano solo quando arriva lo slogan col cancelletto, e allora fanno i loro bravi articoli sul trend (che Nanni Moretti li perdoni) delle trad wife, senz’essersi fin lì accorti che l’aspirante trad wife ce l’hanno alla scrivania a fianco, che la trad wife o aspirante tale sono loro.
Loro che vogliono sei mesi d’aspettativa per scegliere le bomboniere; loro che si licenzieranno entro il primo anno di vita del bambino così hanno il sussidio di disoccupazione e la vita da massaia anni Cinquanta (traduzione di traditional wife) ma con in più gli elettrodomestici; loro che mettono grandi like ai post femministi sul carico del lavoro di cura, fingendo di considerare un’oppressione quella che è in realtà la loro ambizione: avere come massima responsabilità la divisione dei bianchi dai colorati.
Ovviamente complemento di tutto ciò è il dovere della bellezza: se non basti a te stessa, devi almeno essere decorativa. E quindi mai mai mai sarai abbastanza adulta e sveglia da rispondere, a chi sottolinea che non sei bella, che ’sti cazzi: mica è il tuo lavoro esser bella, per quello ci sono le fotomodelle; sempre, dirai che è una violenza dirti che hai il culone, una violenza usare l’espressione «prova costume», una violenza commentare le foto come se fossero foto, cioè immagini, in chiave non lusinghiera. Vi metto una foto del culo, e voi dovete o dirmi che sono bellissima o chiedermi cosa penso di Hegel.
Se il tuo orizzonte di donna sta tra i concorsi di bellezza e le nozze in bianco, è evidente che sei in balìa di chiunque. Delle Michela Murgia che ti hanno convinta che «prova costume» non sia la puttanata che è, roba da titoli di giornale che Murgia e io alla tua età sfogliavamo senza mai farcene influenzare, ma anzi: è un temibile strillo di copertina prescrittivo, letto il quale di certo ti affamerai e ti complesserai. Dei Vittorio Feltri che ti dicono che sei cessa per il gusto della battuta. Dei John Mac Ghlionn che ti dicono che sei zitella per il gusto dei clic. Tutti, ma proprio tutti, possono farti piangere: potevi essere un’adulta emancipata, e invece sei una bambina di otto perpetui anni.
«C’è la Salis che è vestita come una cameriera di Catanzaro, la cosa più bassa che si possa immaginare». Quando Vittorio Feltri commenta così la foto di Ilaria Salis e Carola Rackete al parlamento europeo – entrambe in prendisole, giacché non è che potevano estinguersi l’alfabetizzazione e l’emancipazione epperò sopravvivere il dress code – io penso a Luciano Bianciardi.
Non ricordo dove avesse scritto che Ugo Tognazzi era ignorante come un carabiniere, ma chiunque mi frequenti sa che è un’immagine che cito con una frequenza patologica, di solito per dire la mia grande stima nei confronti della categoria degli attori; e tuttavia non la uso quasi mai quando scrivo pubblicamente. Come tutti quelli che scrivono per mestiere e non per urgenza espressiva, mi faccio ogni volta una mano di conti: ce l’ho un pomeriggio libero per star dietro allo schianto di tutte le categorie offese, dal sindacato degli attori all’arma dei carabinieri? No, non ce l’ho, sono già in ritardo su quella e quell’altra scadenza.
Vittorio Feltri ha ottantun anni, ha fatto il giornalista negli anni in cui si facevano i soldi veri e oggi se la gode e non ha consegne da rispettare e pomeriggi da non affollare di notifiche; inoltre, è saldamente posizionato nella casella del provocatore e insomma «cameriera di Catanzaro» può dirlo e restare – godendo – a guardare l’effetto che fa (io mi sarei fidata di più della battuta e non avrei precisato «la cosa più bassa», ma insomma son dettagli).
Poiché il dovere della bellezza e quello contiguo dell’eleganza si estendono all’intero genere femminile, mica solo alle deputate europee, e poiché c’è un tipo di suscettibilità su cui si può sempre far conto ed è quella campanilistica, ecco che si offende il sindaco, in modalità Gabibbo: «Si vergogni e se ha un minimo di decenza chieda scusa a Catanzaro e alle donne che sgobbano nei bar e nei ristoranti con grande dignità». Curiosamente, non precisa «molto ben vestite».
Se dirigessi un giornale dell’era della post-alfabetizzazione, uno di quelli che mettono cento foto di tutto, la gallery con le cento meglio vestite alla festa del Met, la gallery coi venti momenti più indimenticabili del tour di Taylor Swift, la gallery coi trentacinque ultimi fidanzati della Marcuzzi, la gallery con le dieci ragazze che si fingono interessate alla forte personalità di Tony di “Temptation Island”, se dirigessi uno di quei giornali lì manderei subito un fotoreporter a Catanzaro. La gallery con cinquanta cameriere vestite meglio della Salis, la gallery con trenta prendisole che piacerebbero a Vittorio Feltri, la gallery con cento catanzaresi che oltre a essere fotogeniche hanno pure il PhD.
Intanto su Newsweek un tizio che nessuno di noi aveva mai sentito nominare – John Mac Ghlionn: secondo la bio social ricercatore psicosociale, qualunque cosa significhi; secondo Lombroso uno con la faccia di quello cui non la davano al liceo e pochino anche dopo – trova il modo di fare l’articolo più cliccato della settimana. Scrivendo che Taylor Swift è una zitella.
E, in quanto tale, in quanto trentaquattrenne senza figli che passa da un fidanzato all’altro, in quanto non trad wife, un pessimo modello comportamentale per le vostre figlie. Una cosa interessante che è cambiata da quando quindici anni ce li avevamo noi, a ora che ce li hanno le nostre figlie, è l’appropriazione culturale del concetto di «modello».
Ai tempi del Somatoline, solo la destra usava un concetto demente come quello del modello comportamentale. Se i vostri figli giocano ai videogiochi diventeranno degli assassini, se ascoltano il rock si drogheranno, col rap entrambe le cose. La gente non dico colta ma almeno istruita, in una società che era ancora alfabetizzata, sapeva che l’intrattenimento era solo intrattenimento: non ti mettevi a sparare alla gente perché guardavi i film di cowboy.
Quando una teoricamente di sinistra – Tipper Gore, moglie di quello che poi sarebbe diventato il vice di Bill Clinton – si metteva a chiedere avvisi sui dischi perché i testi di Prince (di Prince!) le sembravano un modello negativo per sua figlia, era da sinistra che la prendevano ferocemente per il culo.
Poi è arrivato questo secolo di dementi, e tutto è diventato modello comportamentale. Se non vedi una donna presidente, non crescerai ambiziosa perché non saprai su chi modellarti (un problema che curiosamente non si è mai posto per la Thatcher o per Golda Meir o per la Merkel). Se non vedi donne con la cellulite nelle pubblicità dei bikini, non saprai che puoi metterti in bikini (infatti noialtre cui le pagine dei giornali mostravano solo modelle sventolissime stavamo tutte in spiaggia col burqa). Eccetera. Tutto è modello comportamentale, e quindi non solo a Mac Ghlionn hanno abboccato tutti come tonni, ma nessuno rispondendogli: ecchissenefrega, è una cantante, mica un’educatrice.
No, gli hanno risposto che sono felici che da modello alle loro figlie faccia una che non si accontenta dell’uomo sbagliato, ma anzi si sente libera di provarne diversi prima d’accasarsi. Implicitamente: accasarsi è comunque il fine ultimo; ma, guarda un po’ che emancipazione, nel 2024 non si sposano vergini, ed è solo grazie a Taylor Swift che possono farlo. Abbiamo il permesso di fare solo ciò che sta in copertina, essendo i giornali dell’analfabetismo collettivo intercambiabili coi dépliant pubblicitari.
Io non so se nasca prima l’uovo o la gallina, l’analfabetismo o la regressione dall’emancipazione, ma mi pare che nella migliore delle ipotesi la catastrofe sia inevitabile, e nella più realista delle letture sia già abbondantemente in corso.
È andata così, pazienza: abbiamo avuto qualche decennio di benessere sociale e culturale, in cui oltre agli elettrodomestici e all’acqua corrente avevamo i romanzi, i saggi, i film, il gusto del bello, la curiosità intellettuale, la voglia di cavarcela, l’intenzione di capire il mondo, i filosofi di cui dovevi sbatterti a rileggere il giro di frase ma alla fine avevi capito qualcosa in più. A sapere che non sarebbe durata, ce la saremmo goduta ancora di più, ma ci è andata comunque meglio che a queste disastrate generazioni arrivate dopo, alle quali restano le bomboniere, la body positivity, i trigger warning, “Bridgerton”, e Byung-Chul Han.