Da qualche giorno, “The Acolyte” è disponibile in streaming su Disney+. La serie, che ovviamente appartiene alla saga di star Wars, è diretta da Leslye Headland e interpretata da Amandla Stenberg e Rebecca Henderson (moglie di Headland). Nonostante sia costata (fonti Disney) circa ventitré milioni di dollari a puntata, è ormai evidente che sia stata un completo disastro: sul sito rottentomatoes.com ha avuto solo il tredici per cento di gradimento. Il risultato peggiore mai avuto da una produzione legata alla saga della galassia lontana. E non era facile fare peggio delle ultime produzioni Disney che, da quando ha incorporato la Lucasfilm ha costantemente deluso i suoi fan. Vale la pena parlare di questo ennesimo fallimento perché non è soltanto una storia di incompetenza artistica, ma un esempio perfetto di come l’ideologia uccida la creatività e tradisca le aspettative degli spettatori.
Basta andare su internet per vedere come gli youtuber siano stati massicciamente in rivolta contro l’ultima serie. Spesso si dice che gli youtuber non sono attendibili o siano semplicemente troll, ma quando tutta la rete si muove in una direzione, c’è solo una spiegazione: la fan base è disgustata. Anche perché uno youtuber non ha alcun interesse a esprimere un parere contrario alla maggioranza degli utenti: da Nerdroticon a Benny Johnson, da Doomcock (sì proprio lui) a The critical drinker, il parere è unanime: “The Acolyte” è scritto male.
Le puntate di “The Acolyte” sono state definite, a ragione, una masterclass su come non fare una serie televisiva. Alcuni errori marchiani danno l’idea del livello di questa serie. I dialoghi dei personaggi sono contraddetti dagli eventi: la serie inizia con un cavalieri Jedi ucciso da una pugnalata e poi la trama ruota intorno al principio che «i cavalieri Jedi non possono essere uccisi da armi convenzionali». Gli eventi non hanno senso e per procedere i personaggi sono costretti ad abborracciare lunghe spiegazioni che riempiono i vuoti … quello che nella geniale serie “Boris” era stato soprannominato o’ dimo (cioè, «lo diciamo» invece che farlo vedere). Le leggi interne del mondo di Star Wars non vengono rispettate: il fuoco brucia nello spazio, i Jedi hanno poteri mai visti in altre puntate, e mille altre incongruenze che sfilacciano la trama e tolgono coerenza agli eventi.
Come è possibile che la più grande corporation mediatica commetta una serie di errori che sarebbe ingiustificabile in produzioni amatoriali? Un detto famoso nel mondo dell’immaginario è che i personaggi non possono essere più intelligenti dei loro autori. La spiegazione più ovvia è che gli autori (a partire dalla regista) non siano selezionati per la loro abilità, ma per la fedeltà all’ideologia woke e Lgbtq+ che oggi è egemonica (in senso gramsciano) tra le classi dominanti di Hollywood. Ovviamente, il problema non è che ci siano personaggi gay, il problema è che questi personaggi non rispettino la logica del mondo fantastico e non abbiamo valore in quel contesto. Un personaggio non è valido se soddisfa le aspettative ideologiche di qualcuno, ma se è un buon personaggio!
L’aspetto peggiore di questa appropriazione della Disney della saga della galassia lontana è stato la sistematica distruzione e reinterpretazione dei valori della trilogia originale che aveva per tema la saga dell’eroe e la redenzione del padre (Darth Vader) da parte di suo figlio (Luke). È questo che ci ha fatto innamorare di Star Wars: l’incrollabile fiducia che, in fondo, anche il cattivo più spaventoso possa essere redento. Oggi però tutto questo non basta, anzi. Passa in secondo piano rispetto alle questioni di genere tanto care alla megadirettrice della LucasFilm, ovvero Kathleen Kennedy. E così, la forza deve essere femmina (ma perché? Chi aveva mai detto che la forza era maschile?), Luke Skywalker deve essere ripresentato come un vecchio depresso senza speranza (proprio lui che era il simbolo della speranza), Ian Solo deve morire ucciso dal figlio e, nella serie “The Acolyte”, proprio la forza deve essere trasformata in una specie di magia scoperta da una comunità di sole donne (ovviamente gay).
A rischio di ripetermi, il problema non è inserire elementi di inclusività, il problema è tradire il senso di un mondo fantastico per imporre valori esterni: quando una ideologia pretende di usare l’immaginazione per insegnare e imporre i suoi valori, l’arte avvizzisce e muore. E anche nelle produzioni commerciali ci deve essere una briciola di creatività.
Provo a dare un criterio generale. Ogni mondo fantastico è una piccola opera d’arte con sue regole e sue leggi. La vicenda si muove all’interno di queste leggi per incarnare un mito eterno che parla agli spettatori che possono, grazie all’escapismo offerto da quel mondo fantastico, sentire risuonare qualcosa di fondamentale e, allo stesso tempo, essere trasportati lontano dalle loro vicende quotidiane. Charlie Chaplin scrisse che le vicende umane viste da vicino sono un dramma e viste da lontano sono una commedia. È questa distanza che consente di dare alla fantasia la capacità di essere vera senza essere un dramma. Gli autori della Disney, come i registi di Stalin o gli scrittori amici del regime fascista, fanno il contrario, piegano le leggi interne del mondo fantastico a disposizione, la saga di Star Wars che per loro stessa ammissione non hanno amato e non hanno capito, alla loro agenda politica e sociale. È il nostro mondo che detta le leggi al mondo fantastico invece di essere il mondo fantastico a parlare a noi.
Certo, ogni opera è sempre stata condizionata dall’ambiente culturale politico e sociale in cui è stata scritta. Ma è proprio perché è riuscita, malgrado il contesto, a dire qualcosa di suo che noi la apprezziamo. Non a caso molti artisti vengono dalla periferia dell’impero o si propongono come alternativi al sistema di valori in cui lavorano e vivono. A volte è una questione di equilibrio, l’Eneide è stata sicuramente scritta per compiacere Augusto, ma ha controbilanciato questa genuflessione al potere imperiale con molti elementi, estetici e di contenuto, che l’hanno riscattata. E, persino i potenti del passato, almeno i più intelligenti, questa cosa l’hanno capita. Il potere e le leggi devono riconoscere il potere dell’arte; qualcosa che, senza nessuna pretesa culturale alta, prodotti come la trilogia originale di George Lucas, avevano capito benissimo. Gli autori e produttori di “The Acolyte” hanno pensato di poter imporre i propri valori all’arte. Non si può. Come si può uccidere un mito amato da milioni di spettatori in tutto il mondo? Avvelenandolo con l’ideologia e soffocandolo con prodotti scritti male che ne offendono sia lo spirito che l’estetica.
Certo ci vogliono molti soldi, dedizione e grande potere; tre cose che Kathleen Kennedy e la Disney hanno. Sfortunatamente per noi, hanno solo quelle e sicuramente non hanno la capacità di George Lucas di dare voce alla magia e ai valori di un mondo che non è il nostro. “The Acolyte” non ha più nulla della galassia lontana lontana, è solo uno zombie che sfrutta le sembianze di una saga amata da milioni di persone e ormai lontana anche nel nostro ricordo. Gli anglosassoni hanno un’espressione significativa per dare il colpo di grazia, to put the last nail in the coffin. Con “The Acolyte” la Disney ci è quasi riuscita, ma Star Wars è un mito eterno. Per ora la forza è ancora con noi, ma per quanto?