Indietro tuttaIl genio dell’autoritarismo è uscito dalla lampada

Il luogo comune secondo cui oggi, al tempo di internet, il fascismo non si ripresenterebbe certo con le camicie brune, le camere di tortura e le svastiche è stato già smentito dalla storia e dalla cronaca. E, comunque, qualunque cosa ci riservi il futuro, non c’è scampato pericolo o riduzione del danno o riscossa dell’ultimo minuto che potrà cancellare questa novità: tutto ciò che è immaginabile ora è possibile

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Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine L’età dell’insurrezione + New York Times Big Ideas in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.

La famosa affermazione di Hegel «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale», contenuta nella prefazione ai Lineamenti di flosofia del diritto, è stata considerata da molti l’esempio di un realismo che scivola nel giustificazionismo e finisce di fatto per predicare l’arrendevolezza di fronte alla tirannia. L’affermazione di Primo Levi «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo», tratta da I sommersi e i salvati, gode di ben altra fama e suona tuttora in ben altro modo alle nostre orecchie. Eppure, a pensarci meglio, non dice qualcosa di così diverso. Un po’ sì, intendiamoci, perché Levi si riferiva a fatti ben precisi, come l’avvento del nazismo e l’Olocausto, mentre Hegel parlava di realtà in senso più alto: per farla breve, l’uno parlava di storia, l’altro di filosofia.

C’è in ogni caso una razionalità del male che forse tutti noi, cresciuti nella felice eccezione della pace europea seguita al 1945, dovremmo imparare a riconoscere: non per giustifcarlo, il male, ma per vigilare, se non vogliamo che la chiusura di quella lunga parentesi storica, annunciata dalla guerra in Ucraina alle porte del continente non meno che dai rigurgiti di autoritarismo al suo interno, ci colga completamente impreparati.

Tanto per cominciare, dovremmo abbandonare certi automatismi ormai anacronistici, che per pigrizia o per conformismo inducono anche i più avvertiti tra noi, nel momento in cui denunciamo pericolose tendenze autoritarie, a precisare subito che naturalmente, anche nel caso in cui quelle tendenze prendessero il sopravvento, darebbero luogo a un autoritarismo molto diverso da quello che abbiamo conosciuto, ad assicurare che nessuno vede dietro l’angolo dittatori e camicie nere, a ripetere che il fascismo moderno avrebbe oggi, ovviamente, tutt’altro aspetto.

Non è così, o perlomeno non è affatto ovvio che sia così. E continuare a ripeterlo non aiuta. Anzi, è la dimostrazione della nostra perdurante inconsapevolezza, la prova del fatto che siamo in piena fase della negazione. Un fascismo senza bastone e olio di ricino non è fascismo, e aver parlato per troppi anni della violenza o del fascismo della cattiva informazione o addirittura della pubblicità, avere straparlato di forme di dittatura più dolci e più sottili, e quindi più insidiose, sulla scia di una stanca rimasticatura delle teorie francofortesi (quelle secondo cui «una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata»), ci ha fatto perdere il senso della differenza fondamentale che corre tra una dittatura virtuale e una dittatura reale, tra una bastonatura mediatica e una bastonatura fisica. Tra la confortevole, levigata, ragionevole non-libertà che c’è oggi in Italia, in Svezia o in Australia, e la molto meno confortevole non-libertà che c’è, ad esempio, in Iran.

Il luogo comune secondo cui nel mondo di oggi, al tempo di internet, il fascismo non si ripresenterebbe certo con le camicie brune e le camere di tortura, le croci celtiche e le svastiche è stato già smentito dalla storia, e continua purtroppo a essere smentito ogni giorno dalla cronaca. Basta vedere la simbologia della compagnia Wagner, solo da poco disciolta, o per meglio dire integrata nelle forze armate russe, o la zeta esibita dalla gioventù putiniana, nonché da cantanti, conduttori e valletti di vario genere nelle adunate di regime: perfettamente analoga, anche stilisticamente, a una mezza svastica.

Una corrispondenza etica ed estetica certificata dal significato inequivocabile che quel simbolo assume sui carri armati e sugli altri mezzi corazzati con cui la Russia aggredisce l’Ucraina. E il fatto che la principale giustificazione dell’attacco sia proprio l’opera di “denazifcazione” – un’invenzione grottesca che è l’esatto contrario della verità – non è l’ultima delle conferme della legittimità del parallelo.

La diferenza principale, e inquietante, è che questa volta, all’interno del campo occidentale, la minaccia più grave ha fatto la sua comparsa proprio nei due Paesi da dove un secolo fa venne la salvezza, nella Gran Bretagna della Brexit e negli Stati Uniti di Donald Trump. Al tempo stesso, come spiega Robert Kagan nel suo nuovo libro, Insurrezione (di cui trovate un estratto in questo magazine e che verrà pubblicato a breve in edizione italiana da Linkiesta Books, ndr), l’autoritarismo razzista e irrazionalista incarnato da Trump non è in realtà una novità assoluta nemmeno in America.

«C’è una linea retta», scrive Kagan, «che dal Sud schiavista della prima metà del Diciannovesimo secolo conduce al Sud post-Ricostruzione tra la fine del Diciannovesimo e l’inizio del Ventesimo secolo, e poi al secondo Ku Klux Klan degli anni Venti del Novecento, ai Dixiecrats degli anni Quaranta e Cinquanta, a Joseph McCarthy e alla John Birch Society degli anni Cinquanta e Sessanta, fino al fiorente movimento nazionalista cristiano degli ultimi decenni, alla Nuova Destra dell’era Reagan, al Partito repubblicano di oggi».

Nel frattempo, il mondo è cambiato. E sono cambiati i mezzi di comunicazione, dalla carta stampata alla radio, dalla televisione a internet.

Ma i bersagli della protesta sono rimasti gli stessi, così come i rimedi proposti: «Tutti hanno creduto a intrighi delle élite che coinvolgevano “Wall Street”, i banchieri ebrei, i “cosmopoliti”, gli intellettuali dell’East Coast, gli interessi stranieri e i neri, in una cospirazione per tenere sotto controllo il semplice cittadino bianco. Tutti hanno cercato di “rendere di nuovo grande l’America”, difendendo e ripristinando le vecchie gerarchie e tradizioni che hanno preceduto la Rivoluzione».

Per seguire il filo del ragionamento non credo occorra conoscere nei dettagli tutti i riferimenti alla storia americana (materia di cui io stesso non sono certo un esperto). Ma chi sia abbastanza vecchio da aver visto Mississippi Burning all’epoca in cui uscì al cinema – nel 1988, giusto un anno prima della caduta del muro di Berlino – dovrebbe fare l’esperienza di rivederlo adesso, come è capitato per caso a me.

Fa uno stranissimo effetto: quello che a suo tempo sembrava il racconto di un passato lontanissimo sembra ora molto più attuale di allora, a cominciare dai continui battibecchi tra il giovane funzionario “kennediano” dell’Fbi, con la sua visione illuministica della società, la sua fiducia incondizionata nel progresso e nell’avanzamento dei diritti civili, e il vecchio poliziotto del Sud che ne ha viste tante e che conosce bene l’ostilità suscitata da un simile atteggiamento in larga parte della popolazione, da quelle parti, ancora negli anni Sessanta.

In un’America rurale fatta di persone semplici e piene di pregiudizi, che si sentivano giudicate e disprezzate dagli intellettuali liberal dell’East Coast (nell’Italia di oggi, in cui le parole non hanno più alcun senso nemmeno quando ci esprimiamo nella nostra lingua madre, figuriamoci in inglese, li definiremmo senza dubbio «radical chic»).

Oggi i democratici di tutta Europa si interrogano sulle possibili conseguenze dell’affermazione dell’estrema destra in Francia, giudicata da sondaggisti e osservatori come la reazione del “Paese profondo” all’arroganza e al complesso di superiorità del liberale Emmanuel Macron, che sarebbe stato anche fisicamente perfetto per il ruolo interpretato nel film da Willem Dafoe. Mentre i democratici del mondo intero si chiedono come fronteggiare la minaccia del ritorno alla Casa Bianca di Trump (più che perfetto, non solo fisicamente, per il ruolo di uno qualsiasi dei seguaci del Ku Klux Klan che compaiono in Mississippi Burning).

Ma, per quanto fondamentali siano l’una e l’altra battaglia, per quanto capitali le loro conseguenze per l’Unione europea, per la Nato, per le sorti della pace e della democrazia nel mondo, la vera novità si è già consumata, non è più un’ipotesi, e sta proprio nel fatto che le conseguenze paventate dai democratici di tutto il mondo sono diventate possibili.

Qualunque cosa ci riservi il futuro, non c’è scampato pericolo o riduzione del danno o riscossa dell’ultimo minuto che potrà cancellare questa novità. Il genio è uscito dalla lampada. Ciò che è immaginabile, è possibile. Potrà non accadere, tutti dovremmo sperarlo e fare la nostra parte perché non accada, ma difficilmente, almeno nel medio periodo, potrà tornare inimmaginabile. Ciò che è razionale, purtroppo, è reale.

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Big Ideas in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.

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