Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine L’età dell’insurrezione + New York Times Big Ideas in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.
Nel suo saggio “Verso l’unità europea”, pubblicato sulla Partisan Review nel luglio 1947, George Orwell si chiedeva quale sarebbe stata la sorte della democrazia liberale e del socialismo democratico. Il noto pessimismo dello scrittore britannico, come mille altre cose sue, risulta liberatorio da rileggere ora. Perché è già con un mezzo sospiro di sollievo che si può celebrare – ma che celebrare, festeggiare – che nel 2024 ancora non sia andata come Orwell temeva, e come probabilmente comunque andrà, prima o poi. «Se fossi un allibratore, facendo il calcolo delle probabilità senza farmi influenzare dal tornaconto personale, non scommetterei sulla sopravvivenza della civiltà oltre qualche centinaio di anni», esordiva Orwell. E: «Nell’eventualità che il mondo si divida in tre super-Stati invincibili, la tradizione liberale rimarrà abbastanza solida in seno al settore angloamericano tanto da rendere tollerabile l’esistenza e alimentare persino qualche speranza di progresso. Ma queste non sono altro che congetture. Le previsioni sono tutt’altro che rosee».
Sono passati settantasette anni. Facciamo il conto delle cose che ci circondano ora: l’Unione europea esiste e non si è ancora trasformata in un totalitarismo oppressivo (certo, l’imposizione di target astratti per esempio sulla politica energetica, con le auto elettriche fatte forzatamente circolare da Frans Timmermans con una tecnologia ancora palesemente inadeguata alle necessità dell’utente, o la caccia alle streghe ai danni dei fumatori con le spiagge smoke free dove non si può accendere una sigaretta nel raggio di cinque chilometri neanche se poi si promette che ci si mangerà il mozzicone, tutte queste cose non entusiasmano, ma insomma: la dittatura è decisamente altro).
Negli Stati Uniti il sistema elettorale ha retto nel 2020 al più fraudolento e demenziale e violento tentativo di assalto ai risultati del voto popolare della storia della democrazia americana (almeno dai tempi della Guerra civile). Alle recenti elezioni europee, la gran parte delle opinioni pubbliche dei Paesi dell’Europa orientale, inclusa la Slovacchia, ha detto di voler stare in Occidente e in Europa, non nel campo buio delle democrature e tantomeno tra i fiancheggiatori della Russia.
In Asia, l’esperimento clamoroso di esportazione postbellica della democrazia in vaste società non occidentali come il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, a distanza di otto decenni è vivo e prospera. A Seoul fanno video bellissimi in stile videogame per aiutare l’affluenza alle urne, a Taipei si scende in piazza per qualsiasi cosa, senza repressione (alla faccia di quelli che ci spiegavano che alla democrazia si accede solo se si sono avuti, nell’ordine, Pericle, il Cristianesimo, i Comuni medievali, Montesquieu). Nei Paesi occidentali, tra cui il nostro, le case editrici possono ancora pubblicare libri di più o meno qualsiasi orientamento (più o meno, cioè sempre che non si tratti di Voltaire su Maometto, o di riscrivere idioticamente i titoli dei libri di Conrad), e possono pubblicare opere illiberali e antioccidentali di autori che scrivono cose più o meno sciocche o intolleranti, non solo senza correre alcun rischio giudiziario, ma ricavandone lauti profitti per gli autori medesimi. E allora?
Quello che accade è che tra le rosee aspettative di molti saggisti della nostra generazione – uno su tutti, l’ipercitato Francis Fukuyama con tutto l’idealismo sulle buone sorti dell’umanità dopo la sconfitta del socialismo reale nell’Europa dell’Est, ma anche il ragionamento pur storicamente accurato di Steven Pinker sulla riduzione della violenza, «viviamo nell’era meno violenta della Storia”», ed è tecnicamente vero – e la realtà come ci si presenta, viene francamente da piangere.
L’Ucraina, fronte della libertà e della democrazia nel Ventunesimo secolo, lotta per la propria sopravvivenza al nemico totalitario con un coraggio e una tenacia e una abilità commoventi, mentre da ventotto lunghi mesi le altre democrazie europee esitano a darle la copertura aerea e decine di migliaia di ragazzi e ragazze, la meglio gioventù europea, la Giovine Europa di Lviv e Kyjiv e Odessa, hanno dato il sangue sul fronte. La Georgia e la Moldavia e ultimamente perfino l’Armenia cercano approdo in Europa ma hanno al proprio interno vasti segmenti di opinione pubblica che sono soggetti al richiamo (e/o al denaro) dell’orso russo.
Israele è colpito al cuore da un’organizzazione anch’essa totalitaria, che ha messo un’ipoteca sul futuro della Palestina (e, come ha notato Pascal Bruckner nel suo nuovo, formidabile libro di prossima pubblicazione in Italia con Guanda, Je Soufre Donc Je Suis, il punto di giunzione tra islamismo jihadista e putinismo è l’identificazione dell’Occidente liberale, del nostro stile di vita, come il Grande Satana: perfino nei termini).
In Francia, in Germania, in Italia, in Polonia, in Olanda, insomma nella maggior parte dei Paesi occidentali (inclusa la democrazia israeliana), fino soprattutto agli Stati Uniti, partiti e tendenze autocratiche non solo si avvicinano pericolosamente al potere: in molti casi ormai si avvicendano al potere, con una naturalezza che ci stordisce nel suo imporsi come una nuova normalità. Ce la ricordiamo, quella scena bellissima di Io e Annie in cui Woody viene chiamato alle tre del mattino da Annie Hall nel suo appartamento newyorkese perché in bagno c’è un grosso ragno da uccidere, e Woody entrato in casa prende la prima rivista che gli capita in mano per farlo fuori, accorgendosi con angoscia che si tratta della conservatrice National Review? «Da quando in qua leggi questa roba?”. «Be’, cerco di avere tutti i punti di vista», risponde Diane Keaton. «Bene, e allora perché non chiedi a William F. Buckley di venire a uccidere il ragno?». Ecco, stiamo consentendo a William F. Buckley di venire a uccidere il ragno, solo che non è Buckley ma qualcuno di molto peggiore, che quando entra in casa alla fine si allea con il ragno e si siede con lui sul divano.
Milioni di persone in Europa hanno allegramente dimenticato che cosa voleva dire vivere solo trentaquattro miseri anni fa sotto la Stasi, la Securitate o altre polizie segrete comuniste e manifestano varie tendenze di Ostalgie in cui il romantico appello a un passato mai esistito crea mostri. L’atmosfera a Bruxelles è weimariana, da assedio. Se scrivi libri che provocano gli islamisti, come Salman Rushdie, rischi ancora la vita. La cultura corporate, congiunta come ha notato Bret Easton Ellis in Bianco a quella woke, pervade il discorso culturale in modo asfissiante: sarebbe possibile, oggi, un personaggio come quello di Barney?
Fuori d’Occidente, il patto Molotov Ribbentrop tra il leviatano russo e quello cinese si salda chimicamente con il richiamo anticolonialista lanciato verso il Sud del mondo, dando luogo a un’angosciante penetrazione di menzogne spudorate, in Paesi la cui tradizione democratica è troppo debole per avere strumenti che consentano loro di resistere alla propaganda. Poco vale ricordare a quegli stessi popoli che il colonialismo è sì una bruttissima storia, ma coinvolge quasi ogni civiltà, mica solo quella bianca ed europea. Recentemente David Frum è stato invitato dalla televisione di Stato turca a discutere l’idea di risarcimenti alle ex colonie britanniche: «Ho rifiutato, ma ho detto che se mi fossi unito, avrei voluto discutere di ciò che la Turchia moderna deve alla Grecia, alla Bulgaria, all’Iraq e all’Egitto per cinquecento anni di imperialismo ottomano». Wow (abbiamo come l’impressione che la tv turca non lo avrebbe comunque trasmesso). Eppure, la lampante verità di Frum non fa presa, non scalda di legittimo risentimento le opinioni pubbliche: gli imperialisti sono sempre e solo Kipling e Meursault.
C’è dunque da disperarsi? No. Cioè, ancora no. È che anche molti di noi tifosi della civiltà liberale siamo vittime della stessa bestia che seduce, come una sirena, i seguaci della dittatura: la stupida nostalgia, che tutto deforma. Sentimento principe della letteratura, la nostalgia è un peccato mortale in politica. Ci siamo riempiti di aspettative onnipotenti trent’anni fa, al crollo del Muro; dimentichiamo oggi quante cose orribili succedevano ieri, e ci sembra inevitabile che tutto vada verso il peggio.
Succede al nostro sentire liberale quello che una volta Peter Cameron ha descritto riguardo al sesso, mi pare, e in generale alle situazioni a due: se l’altra persona comincia a usare espressioni di eccessivo entusiasmo, anzi, diciamo proprio semplicemente di entusiasmo, l’effetto prodotto è il contrario: ti prende una tristezza sovrana e si smorza tutto. Non è solo una battuta. Ricordiamoci che uno dei migliori, se non proprio il miglior pezzo di oratoria dell’Italia novecentesca (il culmine secondo me) è lo stupendo discorso di Alcide De Gasperi di fronte alle potenze vincitrici, a Parigi, nel 1946, con quell’attacco («Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico…») in cui la ventennale retorica sciovinista del regime (e anche la contemporanea retorica stalinista di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni) veniva liquidata con un lucido, asciuttissimo bagno di realtà, una presa d’atto delle modeste possibilità dell’agire da parte di un Paese che aveva appena rinunciato alle sue velleità di dominio.
Eppure, il discorso di De Gasperi “il costruttore”, come giustamente lo definisce Antonio Polito, non ha un esito deprimente o sconsolato o cinico, anzi. L’assunzione della presa di coscienza è premessa a una rigenerazione, questa sì, morale, dell’agire della nazione. Abbiamo sbagliato praticamente tutto, ma ci siamo, eccoci. Abbiamo costruito nuove istituzioni, Arturo Toscanini è tornato dal suo esilio, il pluralismo è restaurato. Da qui si può ripartire.
Back to the future. La buona notizia, nel 2024, è che molte delle sfde dirette alla liberaldemocrazia non sono tra loro collegate, anzi, sono talmente opposte le une alle altre che si può sperare di campare per un po’, forse per un bel po’, sui reciproci antagonismi degli avversari della società aperta. Si vede come difficilmente il collante antioccidentale possa bastare a tenere mondi diversissimi come quello cinese e quello islamico e quello dell’ortodossia sciovinista russa alleati a lungo termine; la radicale diversità dei due più popolosi Paesi del pianeta, l’India e la Cina, è lampante; e in Europa, la sinistra illiberale e la destra autoritaria possono condividere moltissimo nelle loro pulsioni, ma restano comunque due cose differenti.
La cattiva notizia è che, come notava il grande Jean-François Revel, non si intravede un’ombra di soluzione per il paradosso più grande: che «una parte importante di ogni società è costituita da persone che vogliono attivamente la tirannia: per esercitarla o – molto più misteriosamente – per sottomettersi a essa». La libertà continua a farci paura. Speriamo che ce ne faccia di più la prospettiva di ritrovarci senza di essa.
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