Perdere e riderePer la nuova generazione di atleti lo sport non è una questione di vita o di morte

Alle Olimpiadi di Parigi, il mondo ha conosciuto nuotatori, pugili, tennisti e ginnasti capaci di interpretare i risultati sportivi in molti modi, non solo in una visione binaria di vittoria-sconfitta. Come insegnano i casi di Benedetta Pilato e Irma Testa

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C’è da chiedersi che cosa avesse in mente l’ufficio marketing di Nike quando ha ideato la recente campagna lanciata pochi giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi: «Winning isn’t for everyone. Am I a bad person?». La voce fuori campo di Willem Dafoe, baritonale e rauca di un cattivo dei film, scandisce i pensieri degli atleti e delle atlete che si susseguono sullo schermo con la faccia contrita da avversario temibile in una prima persona che entra nella loro testa mentre in campo dribblano un avversario o si slanciano a canestro per andare a schiacciare. «Sono egoista», «non ho empatia», «non ti rispetto», «ho un’ossessione per il potere» e altre assurdità del genere, illazioni violente cucite ad arte sui gesti atletici sensazionali di Sha’Carri Richardson, A’ja Wilson, Kobe Briant, Kylian Mbappè. C’è da domandarsi anche se questi atleti si sono sentiti riconosciuti in questo tipo di narrazione, se cioè, a fronte di alcuni momenti in cui queste frasi possono essere passate nella loro testa per un motivo qualsiasi, è davvero questa la filosofia con cui si approcciano a ogni gara ogni volta che scendono in campo.

Vincere non è per tutti, è lapalissiano. Ma cosa c’entra la cattiveria con la vittoria? A questo proposito Aldo Cazzullo ha accusato gli schermidori italiani di essere un po’ troppo bravi ragazzi, forse pure mammoni, visto che ci tengono ad avere i propri genitori sugli spalti in occasione di una gara importante. È per questo, suggerisce, che vincono meno di una volta. E purtroppo nell’articolo non si trova da nessuna parte uno straccio di analisi su un piano tecnico-tattico o anche solo di più ampio raggio che supporti la sua opinione sullo stato dell’arte della scherma italiana. Non gli viene neanche in mente di allargare il campo di analisi e per esempio prendere in considerazione che fino a qualche anno fa non ci saremmo potuti immaginare un argento alla spada del tunisino Fares Ferjani. Un risultato che ci parla di un dislocamento delle aree geografiche – Valerio Moggia ne aveva parlato qui a Linkiesta – in cui la scherma si è diffusa ed è diventata competitiva, anche grazie al dislocamento dei maestri di questa disciplina che si spostano in altre federazioni e portano con sé conoscenze e tecniche che per anni ci hanno reso una delle scuole più all’avanguardia in questa disciplina.

Non sono i nostri atleti a essere meno cattivi, sono gli altri che allenandosi sono diventati più forti e competitivi. Ma insomma, questa sarebbe un’analisi lucida e se la mettessimo giù così verrebbe meno l’effetto boutade con cui una certa generazione ormai da tempo affermata si diverte puntualmente ad affondarne un’altra, giovane e alla ribalta, così lontana nel tempo e nello zeitgeist e forse proprio per questo così imperscrutabile.

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Perché mai come in occasione di queste Olimpiadi è emerso uno scarto generazionale fra chi è stato incaricato di raccontare lo sport e chi questo sport lo fa. Per fortuna i social media, che non avranno l’aura intellettuale dei quotidiani, hanno il vantaggio di fornire una comunicazione reattiva per un pubblico molto più vasto. E infatti è dai suoi canali privati che lo schermidore Daniele Garozzo ha risposto all’articolo di Cazzullo dicendo che non solo gli piace essere un bravo ragazzo come molti altri nella scherma, ma sostiene anche che l’affermazione che essere cattivi come modo per arrivare alla vittoria «sminuisce i successi di tanti atleti che, come me, hanno raggiunto i più alti traguardi grazie a impegno, sacrificio e una sana competitività».

La sensazione è che stia cercando di forzare gli atleti nati negli anni Duemila dentro a una vecchia griglia narrativa che per anni ha caratterizzato la narrazione dello sport. L’epica omerica, le battaglie, la morte, la cattiveria che non si placa fino all’eliminazione definitiva dell’avversario il cui corpo verrà legato al carro e portato in giro a mangiare polvere. Ma che l’epica sia una chiave di lettura invecchiata e che non si sposa più con lo sport contemporaneo ce lo dimostrano l’aperta amicizia fra Jannik Sinner e Carlos Alcaraz oppure la posa meditativa di Simone Biles che si prepara a una gara con gli occhi chiusi, concentrata sul respiro, ritratta a bordo pedana in totale serenità così come potrebbe essere sul divano di casa sua.

Già le lacrime di felicità a bordo piscina di Benedetta Pilato in occasione del quarto posto ci avevano mostrato una giovane atleta così diversa dall’imperturbabilità di altre atlete d’élite del passato. Ci vuole molto coraggio a piangere di fronte a milioni di persone, e questa non è una libertà che si sarebbero prese tutte. Non è andata a medaglia per un centesimo ma è il giorno più bello della sua vita, dice, e noi le crediamo. Perché dovrebbe mentirci? Ci sta parlando di pancia, ha lo stomaco ancora chiuso dal nervosismo e i capelli gocciolano ancora dell’acqua della piscina alle sue spalle. Ma è il tono tendenzioso con cui Elisabetta Caporale chiede «ma veramente?» a far serpeggiare in noi e in lei il dubbio che ci sia qualcosa che non va nel gioire per un quarto posto a un centesimo dal bronzo. Era a quel punto che doveva chiudersi il caso, a quel «sì» strozzato con cui Pilato risponde alla giornalista forse sconvolta per aver scoperto dopo anni di onorato servizio che ognuno ha il diritto di gioire per quello che vuole.

La polemica doveva finire lì. Avremmo perdonato la vecchia guardia e avremmo derubricato quella brutta uscita come rigurgito di un tempo in cui Caporale si era rapportata con atleti perdenti che poi nel segreto della loro camera d’albergo del villaggio olimpico avrebbero indossato il cilicio per punirsi come si deve. E avremmo capito e accettato che la prima a essere stata presa in contropiede per la statura morale di Pilato era stata lei. La verità è che in quel preciso istante non ci eravamo ancora resi conto che quello che stava accadendo non era una semplice intervista uscita male ma uno scontro fra due visioni di mondo: chi partecipa per vincere sempre e chi in una determinata partecipazione ci sa leggere molte cose; molte altre cose che in una competizione a livello olimpico contano tanto, al di là dell’andare a medaglia o meno.

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E nella prima categoria sono in molti, anche se a loro volta sono stati partecipanti alle Olimpiadi e dovrebbero aver scoperto sulla propria pelle quanto può pesare rendere una medaglia il discrimine per determinare se una carriera è di successo o meno. Forse è anche per questo che le parole di Elisa di Francisca a commento di Pilato sono sembrate inquietanti. Per l’ex schermitrice le esternazioni di Pilato sulla felicità del quarto posto sono irreali, la fanno rabbrividire. Se non è andata alle Olimpiadi per andare a medaglia, è il senso del commento, che cosa ci è andata a fare? Non è solo la durezza delle parole a scuotere, ma la libertà di entrare a gamba tesa nell’espressione dei sentimenti di una donna nel tentativo di cambiarli, come se solo lei dall’alto della sua esperienza detenesse la giustezza di come ci si deve sentire in quanto atleta che non va a medaglia.

Visti da fuori i risultati considerati di successo alle Olimpiadi possono essere solo tre. Eppure un risultato, qualsiasi esso sia, è costituto di tanti piccoli traguardi intermedi di cui noi osservatori non siamo nemmeno a conoscenza. È un discorso intimo che intercorre fra gli allenatori e gli atleti e nella maggior parte dei casi ha a che fare con progetti decisi a tavolino e pianificati per anni. Ma la pazienza, per chi sta seduto sul divano, è una tortura e soprattutto non intrattiene.

Nello sport si parla spesso di ricostruzione quando un progetto a lungo termine non ha ottenuto i risultati sperati. Si riparte da capo e ci si pone piccoli obbiettivi raggiungibili, tante piccole stazioni da cui è necessario passare per crescere e racimolare fiducia. Ma che ne è invece della costruzione? Un tempo di gara, un movimento, uno schema che funziona non sono accidenti ma frutto di un lavoro spalmato nel tempo. E persino quando sembra che tutto sia pronto per il grande risultato, che l’età, la carriera, l’esperienza, il gesto atletico si siano allineati come una costellazione favorevole, ecco che l’incognita della gara torna a sparigliare le carte.

La spedizione di Irma Testa, pugile peso piuma, ce lo ha confermato. Prima di salire sul ring era sorridente e scherzosa e quando nonostante la prestazione opaca già stavano nascendo i primi dubbi contro la cinese Xu, continuavamo a ripeterci come un mantra che era impossibile che la medaglia di bronzo di Tokyo 2020 venisse eliminata ai sedicesimi. E invece la sconfitta, seppur a sorpresa, è arrivata. E forse sarà stata pure un po’ sorpresa anche Testa del punteggio dei giudici, ma la pugile è sembrata serena, persino sorridente. Qualcuno avrà pensato che c’era qualcosa che non andava in questa prossemica. Chi perde non ride, chi arriva quarto per un centesimo non può sinceramente piangere di felicità. E di nuovo le illazioni si sono sgonfiate dopo un post dai suoi social personali: «Io sto bene, sono felice di quello che ho fatto e di aver avuto l’onore di partecipare alla mia terza Olimpiade. Non finisce di certo qui la mia carriera».

Se sta scritto nero su bianco quel «non finisce di certo qui la mia carriera» è chiaro che non è per sé stessa. È una risposta chiara a chi vorrebbe tentare di leggere questo risultato come un fallimento. È vero, Testa era una delle favorite per l’oro. In questi tre anni al talento si sono sommate l’esperienza e il lavoro, un certo tipo di autostima, una profondità di vedute che si può affinare solo match dopo match. E questi elementi non posso svanire nel nulla, quando Testa tornerà sul ring è a partire da qui che continuerà a costruire il risultato della prossima Olimpiade. E forse questa sconfitta le ha mostrato qualcosa di sé che da domani la renderà una pugile diversa, una donna diversa. Se ce lo dice lei che è tutto a posto, chi siamo noi per non crederle?

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