Il coltello e la post-felicitàRushdie sa ancora come si dice di no

L’autore dei Versi satanici è stato quasi ucciso da un fanatico islamista, trentatré anni dopo la fatwa emanata contro di lui dall’ayatollah Khomeini. Paul Berman confessa con malinconia di aver capito che quello scrittore coraggioso è ancora indomito, ma è comunque molto ferito. E non solo nel corpo

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Quando mi è arrivata una copia del nuovo libro di Salman Rushdie, “Coltello”, non ho fatto nemmeno in tempo ad aprire il pacchetto ed ecco che mi è arrivata anche la notizia che Paul Auster era morto di cancro. La concomitanza dell’arrivo del libro di Rushdie e della notizia su Auster mi ha colpito più di quanto non avrei potuto prevedere. Rushdie e Auster erano amici. Lo sapevo già: nell’agosto del 2022 un uomo è quasi riuscito ad assassinare Rushdie (il libro “Coltello” è incentrato proprio su questo tentativo di assassino) e, pochissimi giorni dopo, l’associazione di scrittori PEN America aveva indetto una manifestazione di solidarietà sui gradini della New York Public Library. Io c’ero e ho ascoltato il breve discorso di Auster, che ha celebrato la dedizione di Rushdie alla narrazione di immaginazione. Auster ha evocato il principio della libertà e, nel farlo, ha espresso senza enfasi il calore di un sentimento personale: il sentimento di un amico per un amico, in un momento di difficoltà estrema.

Ma poi a morire era stato Auster. Quella notizia mi aveva quindi portato a riflettere sulla morte di un altro caro amico di Rushdie, Martin Amis, che, come Auster, è morto di cancro, poco più di un anno fa. E mi aveva portato a riflettere anche sulla morte, pure quella per cancro, nel 2011, del miglior amico di Amis, il giornalista Christopher Hitchens, che era a sua volta amico di Rushdie. Mi sono ritrovato quindi a guardare con dolore il pacchetto che conteneva il libro di Rushdie e mi sono reso conto che un intero capitolo della letteratura anglo-americana sembra essere quasi giunto al termine – anche se non del tutto, ovviamente, dal momento che Rushdie, in effetti, ha appena pubblicato un nuovo libro. Il suo libro, però, non è altro che una contemplazione della mortalità.

Forse non è molto appropriato associare Auster a questi altri scrittori. Rushdie, Amis e Hitchens hanno mosso i primi passi nel mondo letterario sotto il cielo inglese e soltanto in seguito hanno iniziato una nuova vita nei lontani Stati Uniti. Auster, al contrario, era un ragazzo del New Jersey che si era limitato ad attraversare la Baia di New York per andare alla Columbia University e poi a Brooklyn: di fatto, un tragitto che di solito percorrono i pendolari. E oltretutto ho l’impressione che la sua immaginazione abbia sempre attinto più ai francesi che agli inglesi.

Eppure, uno dei libri di Auster evocava, in una versione New Jersey / New York, un’atmosfera simile a quella che aveva plasmato tutto quel gruppo di scrittori. Mi riferisco al suo romanzo di novecento pagine intitolato digitalmente 4 3 2 1, in cui si racconta il percorso di un ragazzo del New Jersey dagli anni del liceo fino al suo coinvolgimento nella rivolta studentesca del 1968 alla Columbia University. Nulla di ciò che accadde tra gli studenti del Regno Unito alla fine degli anni Sessanta si rivelò altrettanto tumultuoso o imponente della rivolta della Columbia del 1968. Eppure, quello spirito di insurrezione andava al di là dell’America. In Inghilterra Rushdie, Amis e Hitchens sono diventati maggiorenni respirandone i vapori, così come era successo ad Auster a New York. E, per certi versi, tutti loro hanno reagito allo stesso modo: coltivando nella loro prosa un’esuberanza dandy che si è sempre compiaciuta di attirare l’attenzione con il proprio virtuosismo.

Era, quella, la prosa di un gruppo di scrittori per i quali l’esuberanza stessa costituiva una ribellione generazionale (era avvenuto qualcosa di simile anche nel caso di alcuni scrittori francesi). Per quanto riguarda Auster, questa esuberanza significava, a volte, la costruzione di frasi ampie, che si snodavano elegantemente da una pagina all’altra. E anche Rushdie si era trasformato in un maestro della ripresa attraverso la ripetizione delle frasi e la loro concatenazione, mentre trasudava gioia per tutti i colori del mondo e per la sua stessa abilità nell’evocarli (le stravaganze allegre e chiassose di Rushdie non assomigliavano, però, neppure lontanamente, alla smussata complessità di Auster).

E così, ora che tre di quel gruppetto se ne sono andati, è finita che l’unico a rimanere, fra tutti loro, sia stato proprio Rushdie, cosa che senz’altro deve aver lasciato perplesso il dio delle probabilità attuariali di rischio, se una tale divinità esiste. Rushdie in “Coltello” riflette su questo aspetto: «Mi è capitato spesso, dopo l’aggressione, di pensare che la morte, alla fine, si accanisce sulle persone sbagliate. Non ero forse io il primo sulla lista del Tristo Mietitore, quello che, a detta di tutti, aveva le più basse probabilità di sopravvivere?». Eppure la Morte, di fatto, aleggiava anche su Rushdie. Eppure, nel momento in cui avrebbe potuto ucciderlo, qualche altro caso del destino ha deciso di intervenire, o forse è stata qualche altra divinità o qualche altro evento fortuito.

Come lo stesso Rushdie racconta in “Coltello”, l’uomo che lo ha aggredito è un giovane sciita del New Jersey, che aveva visitato la casa di famiglia in Libano ed era tornato in America in preda a una radicalizzazione islamista. Rushdie doveva parlare in occasione di un evento in programma nel leggendario festival letterario di Chautauqua (una città che si trova nella parte settentrionale dello Stato di New York) e aveva quindi occupato il suo posto sul palco. Ma ecco che quel giovane del New Jersey, che non sapeva quasi nulla di Rushdie, se non che l’ayatollah Khomeini lo aveva indicato come un nemico dell’Islam meritevole di morte, si era lanciato di corsa lungo il corridoio della sala in cui avveniva l’incontro. Quel giovane era tutto vestito di nero – e indossava quindi un outfit simile a quello già scelto prima di lui da una sfilza di terroristi in occasione delle loro azioni da “martiri”.

Nel capitolo introduttivo di “Coltello”, Rushdie offre una descrizione di ciò che accadde in seguito all’aggressione e definisce questo racconto come un collage in cui si mescolano pezzi di ricordi suoi e ulteriori elementi che sono stati invece riferiti da altre persone. Si tratta di un collage scioccante. Lo citerò abbastanza estesamente perché purtroppo, per capire Rushdie (e per capire che cosa egli abbia fatto in “Coltello” ma anche in altri suoi libri), è necessario assorbire in prima persona una piccola parte dello shock:

«All’inizio, ho avuto l’impressione di avere a che fare con un picchiatore dal pugno formidabile. (Avrei poi scoperto che quell’uomo prendeva, in effetti, lezioni di boxe). Ora so che quel pugno brandiva un coltello. Il sangue ha cominciato a sgorgarmi dal collo. Mi sono accorto, cadendo, del liquido che mi imbrattava la camicia. A quel punto sono accadute diverse cose in rapida successione, ragion per cui non sono sicurissimo del loro ordine cronologico. C’è stata la ferita profonda alla mia mano sinistra, che ha reciso tutti i tendini e quasi tutti i nervi. Ho ricevuto almeno altre due profonde coltellate al collo – un fendente sul davanti e uno più sul lato destro – e uno in faccia, sempre nella parte destra. Se ora mi guardo il petto, vedo una serie di ferite al centro, e due altri tagli in basso a destra; più giù, nella parte alta della coscia, un’altra lesione. E ho riportato danni anche al lato sinistro della bocca e all’attaccatura dei capelli. E poi c’è stata la coltellata all’occhio destro, l’affondo più crudele: la lama è penetrata fino al nervo ottico, e non c’è stata alcuna possibilità di salvarmi la vista. L’ho persa. Menava fendenti e pugnalate come un matto, e il coltello mi flagellava come se fosse dotato di vita propria. Sono caduto all’indietro sotto il suo assalto, sbattendo a terra con violenza la spalla sinistra».

Rushdie spiega di essere stato adagiato su una barella e di essere stato caricato su un elicottero che lo ha portato all’ospedale più vicino in cui fossero in grado di gestire delle ferite di quella gravità. Le squadre di medici che lo avevano preso in carico non erano affatto sicure di riuscire a salvare il loro paziente. Poi Rushdie racconta di un ulteriore viaggio, questa volta verso Manhattan, e di altri medici, di altri infermieri e di una fisioterapista, che gli ha inflitto molto dolore alla mano, un dolore che si è poi rivelato un bene per quella mano.

Mentre dalle pagine di “Coltello” si scoprono queste vicende, sopravviene una riflessione terribile: tutto ciò che Rushdie ha vissuto in occasione dell’attentato di Chautauqua e poi a causa delle dolorose conseguenze ospedaliere di quell’agguato costituisce un tutt’uno con la sua vita nel suo complesso, fin dalla fatwa originale dell’ayatollah nel 1989. Rushdie racconta che, negli anni successivi alla fatwa, la polizia britannica aveva sventato sei tentativi di assassinio contro di lui. Si astiene poi dal fare un conto accurato dei vari agguati diretti, che non sono stati sventati, contro i suoi editori e traduttori in altri Paesi, ma ci dice comunque abbastanza perché possiamo riflettere per conto nostro a tal proposito. Ma ci ricorda invece l’aggressione del 1994 al romanziere (e premio Nobel) egiziano Nagib Mahfouz, un’aggressione che, secondo Rushdie, fu un ulteriore episodio da inserire nel contesto della più ampia ondata di violenze scatenata dalla fatwa dell’ayatollah.

Rushdie ci ricorda anche quanto sdegno e quanto disprezzo si fossero riversati su di lui nel Regno Unito negli anni successivi – ovvero le reazioni di quelle persone che, invece di vedere ne I versi satanici un’esplorazione seria e fantasiosa del disordine mentale e di quella blasfemia che è l’estremismo islamista, aveva preferito vedere nel suo libro la riprovevole volontà di provocare una rispettabile sensibilità religiosa. E racconta quanto per lui fosse stato terribile constatare come nei Paesi dell’Asia meridionale, ma anche nella diaspora in Occidente composta da persone provenienti da quei Paesi, grandi porzioni dell’opinione pubblica avessero preso a insultarlo; quanto per lui fosse stato terribile diventare, nell’immaginario di immense popolazioni, una figura demoniaca; quanto fosse stato terribile sopportare, un decennio dopo l’altro, questo tipo di odio, solo per vedere che, alla fine, quest’odio sarebbe culminato in un agguato contro di lui.

Non intendo suggerire che, riflettendo su tutto ciò nelle pagine di “Coltello”, Rushdie cada in una torpida autocommiserazione. Lui stesso racconta anzi che, durante la convalescenza a New York, si è recato dal suo psicoterapeuta e gli ha detto che non voleva lamentarsi, ma che lo psicoterapeuta gli ha fatto notare che il lamentarsi costituisce il senso stesso della psicoterapia. Rushdie ha quindi concesso a se stesso la libertà di lamentarsi: osserva, ad esempio, che anche il suo occhio superstite non è in gran forma, tanto che già da diversi anni ha iniziato a sottoporsi a iniezioni mensili nel bianco dell’occhio. Ma Rushdie si sofferma sulle sue sofferenze fisiche solo per breve tempo – e c’è qualcosa di toccante nella combinazione tra i giusti motivi per lamentarsi e la riluttanza a farlo.

Nel suo libro, dopo aver elaborato le sue sofferenze per il tempo che ritiene opportuno, Rushdie racconta quindi quali siano stati i fattori “personali” che gli hanno permesso di sopravvivere – al di là dell’aiuto ricevuto dagli altri partecipanti all’incontro di Chautauqua che gli hanno prestato soccorso, dell’aiuto ricevuto dalla polizia (che non è accorsa subito, ma che alla fine è arrivata) e dell’aiuto ricevuto dalle squadre mediche. La sua attuale moglie – la poetessa Rachel Eliza Griffiths, con cui Rushdie sta ormai da diversi anni – in qualità di consorte si è dimostrata di gran lunga migliore di un paio almeno delle sue mogli precedenti (in tutto sono state cinque), che i lettori possono ricordare con divertimento grazie a un suo precedente libro di memorie, Joseph Anton.

. La famiglia della moglie di Rushdie si è schierata dalla sua parte. Sua sorella e uno dei suoi figli, che vivono nel Regno Unito, lo hanno raggiunto in America. E anche altre persone – come il suo fedele agente, Andrew Wylie, o lo stesso Auster – sono riuscite, chi in un modo chi nell’altro, a prestargli aiuto, offrendo sostegno morale, un rifugio in un appartamento oppure un trasferimento a bordo di un aereo privato a noleggio.

Ma Rushdie riflette anche sui suoi punti di forza interiore e sulle sue risorse, che si rivelano essere un elemento della sua vocazione letteraria. Fëdor Dostoevskij, nella Russia della metà del XIX secolo, venne arrestato e imprigionato come militante della causa antizarista. E, pur senza essere aggredito fisicamente, patì un momento di assoluto terrore quando venne portato fuori dalla cella per essere fucilato, gli venne impartita l’estrema unzione e solo allora, davanti al plotone d’esecuzione, venne informato che quell’annunciata esecuzione era uno scherzo dello zar che aveva il solo scopo di spaventarlo. Anche Dostoevskij cercò una risposta nella sua vocazione letteraria. Solo che la risposta di Dostoevskij consistette nello sprofondare in una rabbia sempre più grande, che non si limitava più all’indignazione per le ingiustizie del sistema zarista, ma si dirigeva ora contro le falsità di ogni genere, comprese le falsità degli antizaristi, le falsità della natura umana, le falsità e le verità della contemplazione umana di Dio. Dostoevskij, in sostanza, rispose cambiando. E diventò più cupo.

La risposta di Rushdie, invece, come chiarisce lui stesso nelle pagine di “Coltello”, è stata quella di rifiutarsi di cambiare, e di rifiutarsi di farlo in segno di sfida, a dimostrazione del fatto che le odiose minacce dell’ayatollah e della vasta opinione pubblica che le prende in considerazione non riusciranno a plasmare i contorni della sua immaginazione. Rushdie spiega che la felicità – una felicità che si sviluppa nella sua esistenza personale e nel piacere che egli trae dalla letteratura – è sempre stata il suo ideale e il suo principio. E ha quindi scelto di stare dalla parte della felicità. Ma che cos’è per lui la felicità?

Leggendo “Coltello” ne deduco che la felicità, per Rushdie, è il ricordo dell’infanzia, almeno per quanto riguarda uno dei suoi aspetti (anche se forse non per tutti gli altri). Questo aspetto è il ricordo dell’innocenza infantile sperimentata leggendo libri per bambini (che non è il glorioso contatto di William Wordsworth con il trascendentale, ma è la felicità suscitata dai libri per bambini – o dal ricordo della lettura di libri per bambini – nel tenero calore del focolare domestico). Rushdie nelle pagine di “Coltello” si sofferma su una preziosa fotografa di famiglia che lo ritrae da bambino insieme alle sue sorelline mentre esamina una copia di Peter Pan.

E, in un notevole passaggio del libro, ricorda il momento in cui, tornato finalmente a casa dopo l’attentato, i ricoveri in ospedale e un lungo soggiorno al riparo dai paparazzi nell’appartamento di un amico, gli è venuto in mente Il vento tra i salici di Kenneth Grahame e la Talpa antropomorfa che torna dalle sue avventure all’estero nella sua amata tana di talpa, che è la sua casa, con quel meraviglioso profumo di tutto ciò che è adorabile, sereno e rassicurante. Rushdie scrive: «Quando la porta d’ingresso si è richiusa alle mie spalle, mi sono identificato con l’umile Talpa, che riconosce gli odori della sua tana, e ho avuto un tufo al cuore vedendo la foto appesa sopra il caminetto, quella in cui io e mia sorella leggiamo Peter Pan…».

I libri di Rushdie, uno dopo l’altro, evocano una felicità di questo tipo: la felicità di un bambino innamorato dello splendore dei libri e delle loro meravigliose storie, da apprezzare leggendole nell’universo costituito dalla propria tana da talpa. Si tratta di una gioia gorgogliante, adatta alle sue acrobazie linguistiche. A volte questo gorgoglio si sposta però verso le pieghe di un inconscio non sempre felice.

La scena più bella che Rushdie abbia mai scritto – una scena che, purtroppo, ha portato alle molte sciagure che si sono abbattute su di lui – è quel passaggio de I versi satanici in cui uno dei protagonisti, Gibreel, sogna in modo delirante un mondo che è suppergiù parallelo, in un qualche modo follemente distorto, al mondo evocato dai fanatici islamisti, un mondo in cui gli atti di devozione contenuti nel Corano si mescolano grottescamente con le più terribili crudeltà e con ogni trasgressione morale di segno opposto. Solo che, nonostante tutto, qualche aspetto di quel delirio rimane piacevole. È il delirio di un giovane immigrato in Inghilterra che se la passa male e il cui inconscio profondo è arrivato a qualcosa di molto simile a una lacrima blasfema. Tuttavia, si tratta di un giovane abbastanza simpatico, che potrebbe quasi essere presentabile se solo la sua fortuna con le donne e la sua sanità mentale prendessero una piega migliore (cosa che non accade).

Il culto dell’innocenza infantile di Rushdie crea a volte una specie di strana pacatezza quando mette in scena un dramma che coinvolge un personaggio maschile e uno femminile, come se i confitti e le attrazioni dell’amore potessero essere ridotti a un pacchetto regalo, adatto a essere presentato a un bambino piccolo. In “Coltello”, marito e moglie conversano, dopo l’agguato:

«Come ti senti oggi, tesoro? Come va, caro? Oggi è il Giorno 4 da quando la nostra vita è cambiata per sempre».
«Mah, ti dirò… Alti e bassi, ma sono circondato dalle persone che amo. E ci sei tu, soprattutto, quindi sento di potercela fare».
«Supereremo questo momento. Avremo altre storie da raccontare, e in particolare la storia più meravigliosa di tutte, che è l’amore».
«Esatto».
«Oggi è un’altra bella giornata. Un altro bel giorno che passiamo insieme».
«È merito tuo. Stai facendo tutto tu».
«La cosa più importante l’hai fatta tu: non sei morto».
«Il mio povero completo di Ralph Lauren…».
«Ne compreremo un altro. Entreremo da Ralph Lauren e diremo: “Date un vestito a quest’uomo”».
«Potrebbero regalarmelo, in efetti».
«Come sta la tua mano, tesoro?».
«Mi pesa. È come se ne avessi due appese allo stesso
braccio».
«Ti amo. Ne usciremo».
«Ti amo anch’io».

Ma Rushdie non ha tutti i torti a vedere in questo genere di cose una dignità che ha il valore di una sfda. I trent’anni abbondanti in cui è stato fatto a pezzi dall’ayatollah e da tutti coloro che hanno accettato di subire l’infuenza dell’ayatollah (e cioè da un sacco di gente), trent’anni che sono culminati in un vero e proprio agguato dalle conseguenze devastanti, lo hanno lasciato, come lui stesso è orgoglioso di annunciare, immutato. All’ayatollah Rushdie ha risposto: «No».

Il Rushdie di prima della fatwa è uguale al Rushdie post-fatwa. E così, se gli viene l’impulso di scrivere «Ti voio bene» al modo dei bambini, nessuno lo potrà fermare. C’è un’arte – o, quantomeno, a volte c’è un’arte – anche in questo. Gabriel García Márquez ha composto numerosi passaggi in tono infantile, e lo ha fatto secondo la stessa logica di Rushdie, ovvero in base alla convinzione che i ricordi delle emozioni infantili siano un punto di partenza adeguato per chiunque voglia arrivare a una lucida consapevolezza – dal momento che è proprio quel punto di partenza infantile ciò che permette a uno scrittore di individuare tutte le crudeltà e tutte le follie, che sono l’opposto dell’essere bambini. In García Márquez, come in Rushdie, l’ingenuo e l’incrinato costituiscono sia l’oggetto dell’attenzione sia l’orizzonte circostante. Ma è anche vero che in un dialogo anche solo una parola in tono infantile di troppo stroppia – e questo significa che ogni nuovo libro di Rushdie oscilla sul confine sottile che divide il “giusto” dal “troppo”.

In un passaggio di “Coltello”, Rushdie ritorna alla sua caratteristica effervescenza. E ci racconta che, quando ha ripreso conoscenza, ha avuto delle visioni: «Erano visioni di natura architettonica: palazzi maestosi e altri imponenti edifici, tutti costruiti per mezzo di alfabeti. I mattoni di queste strutture fantastiche erano le lettere dell’alfabeto, come se il mondo fosse fatto di parole, edificato con lo stesso materiale delle lingue, e di poesia. Non c’era nessuna differenza sostanziale tra le cose fatte di lettere e le storie, che erano costituite dalla stessa materia prima».

Questo è, più o meno, il concetto di cosmo di Rushdie. «Nel mio cervello perturbato si manifestavano luoghi che assomigliavano all’Hagia Sophia di Istanbul, all’Alhambra e a Versailles, a Fatehpur Sikri e al Forte Rosso di Agra e al Lake Palace di Udaipur, ma anche a una versione più fosca dell’Escorial madrileno, minaccioso, severissimo, un incubo piuttosto che un sogno. Quando mettevo a fuoco queste visioni, mi accorgevo che le lettere degli alfabeti erano sempre presenti, luccicanti alfabeti a specchio, lugubri lettere di pietra, alfabeti di mattoni e lettere-tesoro fatte di diamanti e metalli preziosi. Dopo un po’, mi sono reso conto di avere gli occhi chiusi. In quel momento pensavo di averne ancora due».

Ma, a parte questo passaggio visionario e straziante e forse qualche altra fugace riga qua e là, “Coltello” è, per gli standard di Rushdie, un libro terso, lungo solo duecento pagine e per lo più ancorato al suolo. Rushdie ci dice che, in seguito all’attentato, ha perso molto peso. E, sfogliando le pagine del suo libro, si ha la sensazione che sia diventato, in effetti, un uomo più magro. Rushdie dedica un capitolo a immaginare un confronto verbale in carcere con il suo aggressore – che lui chiama solo “A.”, che sta per “Assalitore”, per evitare di rivolgersi al giovane con il suo nome. Ma, durante quel confronto, A. rimane silenzioso e imbronciato e anche Rushdie stesso rimane piuttosto silenzioso: benché Rushdie e A. si odino, l’odio non s’incendia fino a illuminare il cielo. E, in ogni caso, quel tono terso e controllato ha uno scopo. In “Coltello”, i geyser di entusiasmo e le immagini meravigliose che hanno sempre acceso le pagine di Rushdie si placano e, così facendo, lasciano emergere più chiaramente il pathos della sua straordinaria carriera, che si è in qualche modo estesa su un immenso orizzonte di gioia, di orrore, di tragedia e (perdonatemi se cito Hegel) di cosmico-storico.

Rushdie è, in definitiva, un uomo che, grazie a doti di talento o a colpi di fortuna e di sfortuna, si è trovato non una ma due volte a scrivere un libro capace di definire la nostra epoca. La prima volta lo ha fatto con “I figli della mezzanotte”, quando si è identificato con l’indipendenza dell’India e, così facendo, ha finito per produrre un classico romanzo di decolonizzazione. Se avesse smesso di scrivere romanzi dopo quell’unico libro, o dopo i due o tre che aveva pubblicato in seguito, Rushdie sarebbe ancora oggi il figlio prediletto di una certa sinistra letteraria, che si considera una fedele alleata della decolonizzazione e ritiene virtuosa la denuncia di ogni tentativo di istituire delle oltraggiose distinzioni tra gli elementi degni di ammirazione della decolonizzazione e ogni altro aspetto che riguardi quel fenomeno.

Ma l’impulso di Rushdie è stato, in effetti, proprio quello di fare delle distinzioni. In “Coltello” fa un’osservazione che tutti possono condividere: «A essere sincero, sarei felice di non dover mai più parlare de I versi satanici, il mio povero libro calunniato». Eppure, bisognerebbe spendere ancora una parola per quel povero libro calunniato. I suoi passaggi scandalosi mostravano qualcosa che in precedenza, io credo, non era mai stato mostrato in modo tanto vigoroso e così in technicolor (se non, forse, molto raramente). Quel “qualcosa” era il fanatismo islamista che, proprio in quel periodo (la fine degli anni Ottanta), stava iniziando a infliggere indicibili supplizi in una provincia dopo l’altra del mondo ormai non più colonizzato. Forse Rushdie non aveva neppure intenzione di mostrare tutto ciò al mondo, ma è quello che ha fatto. Ha avuto la sventura di rendere evidenti non solo nei suoi libri ma anche nella sua stessa vita questi due fenomeni globali: il trionfo, in molte regioni del mondo, di una decolonizzazione liberatoria e il contro-trionfo, in alcune di quelle stesse regioni, di un islamismo anti-liberatorio.

Nel suo memoir del 2012, Joseph Anton, Rushdie aveva già raccontato la sua storia sullo sfondo di questi due fenomeni, e lo aveva fatto usando perlopiù quel suo tono prediletto di esuberante felicità, anche se le esperienze che riportava erano tutt’altro che felici. E ora quella stessa storia ha dovuto diventare, di nuovo, il suo tema. Solo che questa volta Rushdie ha dovuto scrivere la storia in un tono di post-felicità, teso e relativamente austero. È il tono di un uomo che, per quanto possa essere indomito, è stato gravemente ferito. E questo tono post-felice rende “Coltello” un libro commovente, più toccante, credo, di qualsiasi altro libro che Rushdie abbia scritto prima: è un libro commovente in sé, tutto qui. Ma “Coltello” è commovente anche perché incide una cicatrice retroattiva e persino prospettica sulla sua intera carriera letteraria, passata e futura.

Questo articolo, originariamente pubblicato sulla rivista australiana Quillette, si trova sul nuovo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Big Ideas in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.

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