«Ci sono molte cose che il potere può dare a un uomo: il gusto è raramente una di esse». Lo dice, all’inizio di “Kaos”, Prometeo parlando di Zeus, e mentre lo dice scorrono le immagini della piscina di Zeus coi gonfiabili a fenicottero, e quindi la gente normale capisce cosa intende: l’assenza di gusto dell’estetica Instagram (la gente come me, invece, pensa: ma Zeus mica è un uomo, ma non ce l’hanno un revisore della sceneggiatura).
Poi appare Zeus, che è in tuta, una tuta burina, da rapper ricco che copia i ghetti, che li cita, che li evoca, una tuta con gli sbrilluccichi, e sotto c’è “Money for nothing”, e la me in condizioni normali, che pure ha un debole in forma di madeleine per i Dire Straits, penserebbe che no, diamine, lì sotto ci andava “Siamo dèi”, forse la più sottovalutata canzone del repertorio di Lucio Dalla.
La me di questi giorni, invece, vede Jeff Goldblum con la tuta bianca e pensa a Isabelle Huppert. Pensa a Isabelle Huppert che arriva a Venezia, all’imbarcadero al quale ci sono i fotografi, con una tuta di Balenciaga che è la versione costosa delle tute di ciniglia di Juicy Couture che quindici o vent’anni fa mettevamo per dimostrare al mondo che eravamo talmente magre e fighe da poter andare in giro in tuta di ciniglia, e talmente giovani e sceme da vestirci come vedevamo vestite le attrici americane scese a prendersi il cappuccino con la pinza in testa.
Allora la fidanzata di John Taylor, il bassista dei Duran Duran che ambivamo a sposare a dodici anni (se pensavate che volessimo sposare Simon Le Bon, avete evidentemente di quel periodo una conoscenza di terza mano), si era inventata quel marchio che era una forma di streetwear che facesse il percorso inverso dei codici abituali: eravamo noi, la strada, a copiare le attrici alle quali aveva messo addosso la ciniglia, e non viceversa.
Adesso, con addosso la tuta di ciniglia di Balenciaga che è identica a quelle di allora ma costa quindici volte tanto, Isabelle Huppert arriva nel posto dove le attrici in genere arrivano in abito da sera, tirate a lucido, col vestito buono come noialtre quando la domenica andavamo a pranzo dalla nonna che se le avessimo detto «streetwear» o anche «quiet luxury» avrebbe pensato a imprecazioni a lei ignote e si sarebbe subito fatta il segno della croce.
È perché è testimonial di Balenciaga e sta facendo un discorso mèta in cui i codici della moda citano e parodizzano sé stessi e infatti sulla homepage del sito ha addosso della roba strappata che ricorda i jeans che compravamo già scuciti pagandoli di più e a casa c’era sempre qualche cameriera sorda ai linguaggi delle mode che al primo lavaggio ce li ricuciva? Sopra ha la pelliccia, che oggi apre altri equivoci e se non precisi che è ecologica sai il linciaggio che ti riserva l’internet, mentre quarant’anni fa – quando le adulte non mettevano roba strappata e scucita né tute di ciniglia – sarebbe stata l’unica cosa da normale signora ricca che aveva addosso.
O è perché è Isabelle Huppert, e se si presenta in tuta non ci permettiamo di accoglierla con le osservazioni da zia di provincia e i signoramiismi che riserveremmo a una Hadid? È perché outfit è quando sponsor fischia e, se sei testimonial di Balenciaga e quelli han deciso di promuovere la tuta, tu fatturi e taci?
Non importa, perché tanto a interrogarci sul senso siamo in quattordici: la moda è uno dei molti linguaggi che nessuno parla, nell’epoca in cui nessuno sa niente. In una scena di “Kaos” arriva una e dice nessuno mi crede mai, gli ho detto del cavallo, gli ho detto che c’erano degli uomini dentro, ma niente.
L’interlocutrice le chiede chi sia, evidentemente rappresentativa d’un secolo in cui se cogli il riferimento a Cassandra non sei una che ha fatto le elementari ma una sofisticata intellettuale.
Figuriamoci se la persona media che sfoglia le foto dei festival (in analfabetese: le gallery) s’interroga sui codici della moda, figuriamoci se esiste un abitante di questo secolo che non sia zia di provincia nell’animo, che sia in grado di dire dell’abbigliamento qualcosa in più rispetto a «le sta bene» (cioè: la fa più magra) o «le sta male» (cioè: la fa più grassa), che l’indossatrice sia una diva del cinema, una presidente del consiglio, una vicina di casa. Al massimo, davanti ai divi vestiti in modo che non ci paia donante, noialtre zie di provincia pensiamo «ti ha mai detto nessuno che un dio dovrebbe essere più bello?».
Intanto, all’insaputa della zia media di provincia, vige la dittatura degli stylist, uno dei più gravi problemi che affliggano questo secolo. Stylist è un lemma analfabetese per definire i costumisti non da film e non da teatro ma da personaggi pubblici in occasioni, volendo, anche private. Una volta Arianne Phillips, costumista di celebrità tra cui Madonna, disse che lei la vestiva se doveva andare a una prima o ad altra occasione professionale, ma che se andava a cena la signora Ciccone aveva un armadio pieno di bella roba e non le servivano suggerimenti. Tutte le stylist che conosco dicono che mentiva, che se una ha una stylist poi non sceglie più neanche le mutande da sola, ti chiama anche per sapere cosa mettersi per andare a fare la pulizia dei denti, e io penso due cose.
Una è che dev’essere terribile la vita di chi è costretta a raccontarsi che le sue clienti – attrici italiane non dotate di particolare gusto o contezza rispetto alla moda – siano tali e quali a Madonna. L’altra è che dev’essere terribile uno star system così ignaro della moda da aver bisogno dello stylist per decidere cosa mettersi per il pranzo di Natale in famiglia.
Ma non divaghiamo, e torniamo alla catastrofe causata da una certa categoria professionale. Non ho niente contro gli stylist, ho molti amici stylist, ritengo che siano persone dolcissime e debbano avere tutti i diritti di noi normali, però le loro prestazioni professionali hanno rovinato il mondo. Guardavo le immagini di giovedì, quelle della presentazione veneziana di “Maria”, e pensavo a Tom Cruise.
Racconta Cruise che “Il colore dei soldi” si girava nel gelido inverno di Chicago, e lui come un pirla aveva provato i costumi di scena e aveva scelto una maglietta e un giacchetto di pelle, e si era ritrovato a girare in esterni a gennaio e batteva i denti. Finché si ritrova con Paul Newman in una scena in macchina, Newman s’è fatto mettere una stufetta nell’abitacolo, è vestito bello pesante, lo guarda come il dilettante che all’epoca Cruise era e gli dice: hai fatto la prova costumi d’estate, eh?
Mentre da Venezia mi scrivevano quanto si morisse di caldo e d’umidità, Angelina Jolie fuori dalla prima mondana (in analfabetese: sul red carpet) di “Maria” aveva un coprispalle di pelliccia (avranno specificato «ecologica» in ogni didascalia d’ogni foto?). La mattina, alle foto prima della conferenza stampa (in analfabetese: al photocall), Pierfrancesco Favino aveva un cappotto, Alba Rohrwacher un maglione e degli stivali. Chissà se dentro stavano canticchiando «invece tu chi sei, tuo padre è stato il dolore» per distrarsi dalla calura da svenimento.
Ho desiderato che Paul Newman risorgesse per chiedere a chiunque fosse responsabile di quelle scelte da caldane se avessero selezionato i costumi di scena a gennaio, immemori della temperatura che c’è al festival di Venezia da sempre: la coda d’estate veneziana affligge i partecipanti con un’afa insostenibile da ben prima del cambiamento climatico. Poi ho capito che c’è una cosa che il potere esige da chi vuole detenerlo: la competitività. La dittatura degli stylist, se vuole durare, non può permettersi di piegarsi alla dittatura delle stagioni.