Le ossessioni del corpo La collisione tra performance artistica e mondo del posing

“With All My Strength” è lo studio sui corpi non convenzionali spesso associati all’estetica violenta del patriarcato. Come la pratica performativa valica i confini muscolari nell’incontro emozionale con se stessi e con l’altro da sé. Il racconto dell’artista Martina Rota e dei performer a Linkiesta Etc

Still: Beatrice Perego

“With All My Strength” è un’inchiesta performativa ideata dall’artista, coreografa e performer Martina Rota per indagare la plasticità dei corpi, le ossessioni che li attanagliano e i loro significati sociali e culturali. Il bodybuilding, il posing e le manie estetiche in senso estremo vengono rimodulate secondo il movimento, unito all’incontro con l’altro. 

«In che modo cade un corpo totalmente consegnato al sadismo dei rituali di bellezza? Vorrei sviluppare una pratica di poesia vocale, che faccia spazio alla parola, alle emissioni, alle riflessioni, ai respiri silenziati», da qui parte la ricerca di Rota. Il connubio con tre bodybuilder professionisti, attraverso un progetto di residenza al BASE di Milano, ha portato a un open studio a cui seguiranno una première nell’autunno, un film e una pubblicazione. 

Non sono performer, precisano Massimo Palmieri Bormolini, Massimiliano Palmese e Arold Triberti, presenti nella prima parte dell’intervista. Parlano di questa esperienza come di un qualcosa mai visto e sentito prima, «il culturismo è andato a sfociare nelle identità di ognuno di noi, nelle nostre personalità e fragilità», sottolinea Bormolini. Provenienti da una pratica solitaria, fatta di allenamenti in isolamento, i tre si sono concentrati sull’essere con l’altro. «La connessione attraverso gli sguardi, i movimenti in sincronia, la concezione dello spazio in relazione a un insieme di persone, sono elementi che abbiamo costruito nel percorso», spiega Palmese. «Non è facile lavorare in gruppo quando si vanno a toccare dei tasti emotivi e con vissuti così diversi. La pratica non è stata relegata a esercizi muscolari, ma alla trasmissione di messaggi», conclude Triberti. 

Ph. Matteo Strocchia e Marco Servina

Che cosa avete scoperto attraverso questa performance?
Triberti: «Alcune delle azioni, portate all’esterno della pratica dell’esercizio fisico, perdono totalmente di significato, come per esempio sbattere ripetutamente il piede sul cuscino d’acqua. Mentre però fai quel gesto e lo ripeti, il superamento dei freni inibitori ti suscita dei cambiamenti interni a livello emozionale, delle sensazioni».
Bormolini: «La possibilità di dare a ogni movimento un senso, un senso che parte dal corpo e va in profondità di ognuno di noi, un senso poetico, artistico e anche teatrale del gesto».
Palmese: «Sinceramente non ho mai pensato di trasmettere la mia interiorità con i gesti, questo mi ha dato la possibilità di avere una visione diversa degli oggetti e dello spazio, insieme alla volontà di comunicare». I tre bodybuilder ci salutano, continua l’intervista con Martina Rota.

Partiamo dal concepimento del tuo lavoro, da dove inizia la tua «indagine di ricerca sulle ossessioni del corpo»?
«Parte da una necessità personale. Nell’ultimo anno attraverso la mia vita personale e professionale ho analizzato il significato di performatività e del possesso di un corpo performante. La risposta che mi sono data risiede nella necessità di assumere come valore cardine il benessere fisiologico del corpo. Io alleno ogni parte del mio corpo perché possa essere performante senza alcuna sintomatologia di sofferenza; quando avverto del malessere, utilizzo la vulnerabilità del corpo a vantaggio di questa performatività. Questa pratica ha assunto per me un’accezione ossessiva, alla ricerca della massima funzionalità, nonostante la capacità di controllo su questo sistema sia limitata. Ho iniziato quindi a chiedermi come altre categorie di persone intendessero la performatività».

Ph. Matteo Strocchia e Marco Servina

Perché hai scelto di concentrarti sulla pratica del bodybuilding?
«Tra le persone che lavorano con il corpo ho pensato agli atleti, poi sono arrivata al mondo del bodybuilding. Lo trovo affascinante perché diametralmente opposto al mio modo di vivere. Io pongo al centro il benessere fisiologico, mentre in quella pratica l’immagine e il superamento del limite oltre la sofferenza sono elementi basilari. Il malessere è percepito come confine mentale da poter superare. L’ossessione per la forma da raggiungere attraverso il lavoro fisico è vicina al processo di creazione di una performance o di un’opera d’arte. I bodybuilder sono dei visionari. Fissano l’immagine proiettiva del loro futuro spingendosi a lavorare assiduamente. Ho pensato potesse essere interessante unire queste due manie».

Quanto è essenziale oggi concentrarsi sui corpi non standard?
«L’essenzialità è soggettiva, a livello di collettività stiamo cercando di farci tante domande sulle nostre corporeità: su come stanno nello spazio, su come vengono definite, su come stanno insieme. Sento che l’arte ha la responsabilità e la possibilità di aprire e quindi è essenziale questa scelta nel momento in cui può esplorare diverse narrazioni, immagini o possibilità. Ritrovarsi e riconoscersi parte di una comunità attraverso queste aperture è sempre importante». 

Lo spettatore viene accolto da una passerella tracciata da sacchi trasparenti pieni di acqua che poi verranno utilizzati dai bodybuilder. Cosa rappresentano?
«I sacchi sono elementi attivi che si fanno quasi corpo e interagiscono durante la performance. La scelta dell’acqua non è casuale: è un elemento vivo che contiene diverse sostanze e ci contiene. Ogni performer trova un senso proprio a questi materiali. Oltre al significato soggettivo ne esiste uno collettivo che vede questi utilizzati per esempio come pesi che costruiscono il corpo o aree sulle quali riposare. Sono curiosa di indagare ulteriori accezioni, così come di scoprire a ogni replica l’interazione imprevista con l’acqua».

Ph. Matteo Strocchia e Marco Servina

Inizialmente i corpi lavorano in modo isolato, mimando gli atteggiamenti del posing, solo dopo si avvicinano, si toccano, interagiscono. Come si evolve la performance?
«L’idea è di partire presentando il loro mondo: il posare, il rendersi visibili come forma. Ci siamo fatti guidare dalla domanda: come possiamo decostruire queste corporeità monumentali? Abbiamo cercato di comprendere il significato di questi monumenti, particolarmente solidi o ipertrofici, simbolo del maschio e della mascolinità per come l’abbiamo intesa fino a poco tempo fa. Ci uniamo al lavoro contemporaneo di dibattito e decostruzione sul tema passando proprio per il contatto, sperimentando come si possano creare delle alleanze fra mondi che appaiono distanti. Il settore dell’arte è all’interno di una bolla che guarda al mondo con una certa prospettiva, ma nella quotidianità il porsi degli interrogativi non è mai scontato. Durante le settimane di residenza, per esempio, i ragazzi hanno ricevuto molte domande scomode per la loro assenza dalla palestra e per la partecipazione a questo progetto, spesso con riferimenti all’orientamento sessuale».   

Il sonoro è un aspetto essenziale del progetto, ai versi mascolini da palestra si affianca il sussurrato sulle parti del corpo dell’altro, come avete lavorato su questo?
«Ai versi di dimostrazione di forza si contrappone un momento di stratificazione di pose sulle note di “All The Things She Said”, anche perché negli show di bodybuilding le esibizioni sono accompagnate dalla musica. Questo elemento è entrato a far parte della performance dopo i primi giorni di residenza, durante i quali ho chiesto di vedere i posing da gara e le canzoni a cui i bodybuilder li abbinavano. Nel processo poi la musica è divenuta elemento straniante dall’accezione ironica. Un altro elemento sonoro è legato a quella che ho definito pratica dei segreti: per creare maggiore intimità, ognuno dei performer doveva proiettare verso una specifica parte del corpo dell’altro un segreto in modo sonoro ma non verbalizzato. La frequenza sonora, l’intensità, il ritmo e l’emotività dovevano però essere ben definiti». 

Ph. Matteo Strocchia e Marco Servina

In conclusione, attraverso questa performance si comprende se un corpo muscolare può farsi altro che non sia simbolo di violenza patriarcale?
«Non ho una risposta definita e decisa sulla possibilità che questo lavoro possa introdurre delle narrazioni altre rispetto alla mascolinità tossica e alla violenza patriarcale. Penso l’essenziale sia porsi delle domande per generare uno spazio di riflessione individuale e collettivo. Rimane la libertà di lettura singola, non intendo proporne una univoca». 

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