Sogno nel cassettoLa lungimiranza di Draghi, e il grande sonno dei nani politici europei

Meloni inviterà a Palazzo Chigi il suo predecessore per addolcire la Commissione Ue, ma né lei né Bruxelles spingeranno per adottare davvero l’ambizioso piano dell’ex presidente della Bce. Senza un evento traumatico che risvegli l’attenzione pubblica, come fu il Covid, l’Europa rischia di rimanere nel suo immobilismo politico

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Giorgia Meloni ha fatto la sua mossa. Ha telefonato a Mario Draghi chiedendogli di incontrarsi nei prossimi giorni a Palazzo Chigi. Sembrerebbe un’apertura meloniana al rapporto sulla crisi di competitività dei paesi dell’Unione Europea, preparato da Draghi. Potrebbe sembrare un interessamento alle proposte del suo predecessore. Forse è un modo per facilitare il cammino di Raffaele Fitto contro cui si sono alzate le barricate dei Socialisti, Liberali e Verdi. 

È il gesto di chi vuole sottolineare che le proposte dell’ex presidente della Banca centrale europea contengono un messaggio ben preciso: l’Europa così come è stata gestita non va bene, bisogna cambiare rotta. Come se Draghi suonasse la stessa sveglia dei Conservatori, dei critici di una politica comunitaria che ha fatto perdere capacità competitiva e produttiva al Continente. Ma è chiaro che lo spirito, la filosofia e le tante proposte di Draghi hanno una finalità molto diversa, non solo rispetto al governo italiano. 

Difficilmente il rapporto sarà il vangelo della nuova Commissione Ue. E sicuramente non lo sarà su spinta del governo italiano, nonostante Raffaele Fitto ne condivida anche alcune proposte. E lo stesso si può dire di Ursula von der Leyen. Che poi il rapporto possa essere messo in pratica è un’utopia. Draghi ribalta l’approccio che l’Europa dovrebbe avere in tutti quei settori che i governi nazionali hanno finora gestito in maniera sovrana, evitando di mescolare conoscenze, competenze e tecnologia. Ognuno si tiene i propri campioni industriali. Sono state impedite fusioni tra imprese nel settore della difesa e delle telecomunicazioni. Nessuna politica industriale comune, insomma, e pensare di fare debito comune e investire ottocento miliardi l’anno per non destinare il Continente alla declino al quale è avviato, è oggi una chimera. 

Il bilancio pluriennale dell’Unione è misero, un nuovo NextGenerationEu come quello voluto per affrontare la crisi provocata dalla pandemia è ostacolato da molti Paesi europei. Nordici in particolare. Il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha già avvertito che «la Germania avrebbe problemi democratici e fiscali con nuovo debito comune. Ogni Paese deve assumersi la responsabilità dei propri conti pubblici».

È un’Europa che sbanda destra. Adesso bisognerà ascoltare con attenzione cosa dirà von der Leyen il 17 settembre all’Europarlamento, ma è già chiaro che per lei non è da prendere in toto il rapporto Draghi: non avverte l’urgenza e il declino esistenziale dell’Unione. L’appuntamento della presidente della Commissione a Strasburgo è rinviato di una settimana per un motivo ufficiale (la Slovenia ha cambiato in corsa il suo candidato Commissario). Ma il vero problema è la distribuzione dei portafogli, e tra questi quello che dovrebbero andare a Raffaele Fitto. Verdi e Liberali si stanno mettendo di traverso a una vicepresidenza esecutiva ad un esponente dei Conservatori fuori dalla maggioranza. 

Anche i Socialisti stanno alzando le barricate nonostante la componente italiana dei Democratici italiani stia mostrando una maggiore disponibilità a votare il via libera a Fitto quando si presenterà a Strasburgo. Pina Picierno vorrebbe che il Commissario italiano facesse suo il rapporto Draghi perché da questo dipenderà il voto favorevole dei Democratici. Ma sarà difficile che questo accada senza tenere conto delle dinamiche più generali all’interno del gruppo socialista e dei Popolari. 

Una cosa tuttavia è sicura: non sarà certo il governo italiano l’avanguardia del progetto di Draghi. Giorgia Meloni finora non ha detto, non a caso, una parola. Parlerà dopo avere incontrato Draghi a Palazzo Chigi. Sarà attenta a sembrare collaborativa, ma sicuramente non toccherà un caposaldo del rapporto. Come invece ha fatto Nicola Procaccini, copresidente gruppo Ecr, esprimendosi contrario all’abolizione del diritto di veto che a suo giudizio creerebbe un super Stato e spoglierebbe le nazioni europee della loro sovranità. 

Lo stesso concetto del leghista Claudio Borghi, per il quale il rapporto va nella direzione opposta rispetto a quella che dovrebbe imboccare l’Europa. Matteo Salvini lo considera la solita propaganda di accentramento europeo: la condivisione delle risorse finanziarie toglie sovranità agli Stati membri. L’unico nel centrodestra che si identifica nelle proposte di Draghi è Antonio Tajani, che si spinge a dire che coincidono con quelle di Silvio Berlusconi a favore di un altro NextGenerationEu. Ma è solo diplomazia. 

È troppa avanzata e lungimirante la visione di Draghi per un Paese come il nostro e per un’Europa di nani politici, che pensano di risolvere ognuno a casa propria problemi più grandi loro. Lo stesso Paolo Gentiloni ha il timore (fondato) che il rapporto venga chiuso in un cassetto. Solo un altro trauma come quello che fu il Covid può svegliare i sonnambuli.

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