Falso noveL’equilibrismo di Taremi e il complicato rapporto della nazionale iraniana con il regime

Nel clima di tensione tra la repubblica degli ayatollah e la popolazione, il calcio si è trasformato in un campo di battaglia per i conflitti ideologici che stanno segnando la società iraniana da due anni a questa parte. L’attaccante interista non ha detto frasi così nette, come invece hanno erroneamente riportato tanti media italiani

Ap/Lapresse

Altro che soldato-centravanti, neanche fosse una reincarnazione calcistica di Ciro il Grande. Mehdi Taremi (da pronunciare Taremì, con l’accento sulla i), trentaduenne attaccante iraniano dell’Inter, ha rilasciato delle dichiarazioni che diversi media italiani hanno descritto come un’aperta sfida al regime degli ayatollah. In realtà le parole del centravanti, pronunciate in conferenza stampa di martedì 5 settembre a margine del match di qualificazione ai Mondiali del 2026 contro il Kirghizistan (vinto 1-0 dall’Iran), non sono un grido di libertà contro le ingiustizie della Repubblica Islamica, quanto una prudente constatazione delle difficoltà economiche in cui versa il Paese da diversi anni.

Il casus belli del discorso di Taremi è stata la contestazione alla Nazionale iraniana, nota in patria come Team Melli,  da parte dei propri tifosi nel match contro i kirghisi. Dalle tribune del Foolad Shahr Stadium di Isfahan è più volte risuonata a mo’ di coro la parola bisharaf, che in farsi significa “senza onore”, e che viene spesso usata dagli iraniani contrari al regime per riferirsi a coloro che abbracciano la linea della Repubblica Islamica. L’accusa, rivolta a Taremi e compagni, non è andata giù all’attaccante nerazzurro, che dopo il fischio finale si è sfogato davanti ai microfoni della Federazione.

«Mi è stato detto di non dire nulla, ma bisharaf è una parola pesante. Non possono chiamarci così», ha detto il centravanti. «Qual è la nostra responsabilità? Altre persone hanno fatto sì che capitassero certe cose. So che la situazione economica del Paese è difficile per tutti. Anche noi abbiamo delle lamentele per queste cose che capitano. Amir Khan [Qalenoi, l’allenatore] dice che dobbiamo migliorare. È normale che la pressione e la rabbia che c’è nelle persone siano scaricate da qualche parte. Ma non a questo livello! Noi abbiamo famiglia, noi siamo come voi. Noi non siamo separati, noi amiamo questo Paese. Ci auguriamo che abbia successo in tutti i settori. La nazione è in questa situazione, poi noi veniamo insultati. Noi sportivi… Dio sa che non c’entriamo niente. Né io e né quelli che sono mille volte più grandi me, tipo le celebrity o gli attori, c’entriamo qualcosa. Non c’entriamo nulla, è in mano ad altri».

Il discorso di Taremi fa riferimento al momento di grande difficoltà economica della popolazione iraniana. Il Paese attraversa da anni una grave crisi finanziaria e sociale, per effetto delle sanzioni occidentali e della cattiva gestione delle risorse pubbliche da parte dei governi. Secondo osservatori internazionali, un terzo della popolazione vive sotto la soglia della povertà e sono oltre centocinquantamila i giovani che ogni anno lasciano l’Iran per cercare un futuro migliore all’estero. Ma il discorso non risponde affatto alla contestazione dei tifosi iraniani.

Le critiche del pubblico, infatti, avevano un chiaro accento politico e puntavano il dito sull’allineamento della Nazionale iraniana agli ayatollah, che da decenni portano avanti una feroce repressione ai danni di donne e dissidenti. Di questo aspetto non si trova traccia nel discorso di Taremi, che invece cerca per un minuto e mezzo di far capire alla sala stampa che anche loro, i giocatori, stanno soffrendo le conseguenze del dissesto finanziario del Paese.

Come spiega a Linkiesta Valerio Moggia, giornalista esperto di calcio e fenomeni sociali, «dire che la colpa della situazione nel Paese non è dei calciatori ma del potere non è una presa di posizione contro il regime, piuttosto è una critica all’operato del governo in materia economica». Taremi sembra dribblare l’insulto bisharaf per mantenersi su posizioni poco conflittuali nei confronti della Guida Suprema Alì Khamenei.

Un equilibrismo verbale di cui il giocatore si è reso protagonista anche in un’altra occasione. Nel novembre 2022 centinaia di bambine e ragazze della provincia di Qom riportarono sintomi di intossicazione per via respiratoria. Giorni più tardi emerse che si trattava di avvelenamenti intenzionali e, sebbene non ci fossero stati arresti, diversi media locali puntarono il dito contro il governo teocratico. In quell’occasione, Taremi pubblicò un post in cui condannava gli eventi e si augurava che i responsabili venissero puniti prima che potessero commettere altri crimini di questo tipo. Moggia spiega che «evitando di attaccare direttamente gli ayatollah, Taremi prese una posizione comoda sulla vicenda».

In altri episodi, invece, l’attaccante si è dimostrato meno diplomatico. Come riportato da IranWire, un sito di notizie gestito da giornalisti iraniani della diaspora e citizen journalists di Teheran, durante un match dell’aprile 2015 tra la squadra iraniana del Persepolis, in cui militava, e quella araba dell’Al-Nassr, Taremi segnò un rigore ed esultò passandosi due dita sulla gola, mimando il segno del coltello. Nel post partita spiegò le ragioni del suo gesto dicendo che intendeva «vendicarsi» dei sauditi a causa della «mancanza di rispetto» mostrata nei confronti del calcio iraniano negli ultimi anni. IranWire riporta inoltre che nel gennaio 2020 il giocatore sostenne pubblicamente il defunto comandante della Forza Quds, Ghasem Soleimani, tramite post su X e Instagram.

Il caso di Taremi è emblematico del legame esistente tra calcio e politica in Iran. Un nodo che si è saldato con particolare evidenza, negli ultimi anni, in particolare in occasione dei Mondiali del 2022 in Qatar. La competizione iniziò a novembre, a pochi mesi dallo scoppio delle proteste nel Paese mediorientale per l’uccisione di Mahsa Amini, la ventitreenne di origini curde picchiata a morte dalla polizia religiosa iraniana per non aver indossato correttamente il velo. Da quell’episodio nacque “Donna, Vita, Libertà”, un movimento di protesta contro il regime liberticida della Repubblica Islamica che ebbe notevole risonanza anche fuori dall’Iran.

Prima di partire per Doha, la formazione allenata da Carlos Queiroz aveva incontrato per un saluto l’allora Presidente Ebrahim Raisi, conservatore molto vicino alla Guida Suprema. L’evento suscitò indignazione in molti iraniani impegnati nella lotta contro il regime in diverse aree del Paese. In segno di protesta, poche ore dopo l’incontro tra la squadra e il Presidente alcuni manifestanti diedero fuoco a un cartellone pubblicitario raffigurante le sagome dei giocatori della Nazionale.

Durante il torneo in Qatar i giocatori cercarono di recuperare la fiducia di quei sostenitori che li ritenevano collusi con il regime. In occasione del primo match del girone di qualificazione contro l’Inghilterra i calciatori iraniani si rifiutarono di cantare l’inno nazionale. Stesso copione contro gli Stati Uniti, storico rivale della Repubblica Islamica, e contro il Galles. Come spiega a Linkiesta Farian Sabahi, ricercatrice senior in Storia contemporanea dell’Università dell’Insubria e autrice del libro “Storia dell’Iran: 1890-2020” (Il Saggiatore, 2020), «la scelta della Nazionale venne applaudita dall’opinione pubblica internazionale, che vedeva nel gesto una presa di distanza dal regime. Per gli iraniani, invece, si trattava di ipocrisia: da una parte i calciatori andavano a stringere la mano al Presidente Raisi, e dall’altra non cantavano l’inno nazionale».

I Mondiali in Qatar finirono per acuire tensioni già presenti in Iran. Da un lato c’era chi considerava i giocatori dei “traditori” al soldo del regime. Non è infatti un segreto che il governo di Teheran conferisca privilegi speciali ai calciatori, tra cui importazioni di lusso esenti da dazi e generosi stipendi. Come riportato su Iran International, un sito di notizie gestito da iraniani fuori dal Paese, «questi vantaggi servono come “carote ideologiche” che motivano i giocatori a riecheggiare la retorica del regime». Dall’altro c’era chi, pur ammettendo l’affiliazione tra regime e squadra, sosteneva il Team Melli, operando una dissociazione tra politica e sport.

Un analogo incrocio tra calcio e governo si ripresenta poco più di un anno più tardi durante la Coppa d’Asia, sempre in Qatar. In questa competizione la Nazionale iraniana riuscì ad agguantare la semifinale, battendo per due a uno il Giappone ai quarti, ma venendo poi sconfitta per tre a due dai padroni di casa. A dimostrazione dell’avvenuta rottura tra la squadra e il suo pubblico, al termine del match diverse centinaia di persone occuparono le strade di città come Sanandaj, Javanroud, Ahwaz e Qazvin per celebrare il passo falso di quella che definivano la “squadra dei Mullah”. Altri iraniani, invece, accusarono i detrattori della Nazionale di non essere patriottici, sfogando sui social media il loro biasimo.

Oggi, a distanza di due anni dalla stretta di mano tra i giocatori e il Presidente Raisi, la musica non è cambiata. Anzi, come dimostra il caso di Taremi, tra la Nazionale iraniana e il suo pubblico il rapporto continua a presentare una profonda frattura, specchio riflettente del divario tra i bisogni della popolazione e la linea politica del regime. 

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