Sotto le sireneLa quotidianità degli ucraini e la convivenza con gli allarmi aerei

Stare in Ucraina significa decidere, a ogni segnale di attacco missilistico o di droni, se cercare un rifugio o continuare la propria vita. E la popolazione si affida più ai gruppi di piattaforme online come Telegram che alle app ufficiali per ottenere informazioni

Foto di Giulio Albano

Essere ucraini, da febbraio 2022 ad oggi, significa convivere con i continui allarmi per i raid aerei russi. A qualsiasi ora del giorno e della notte può suonare un allarme. Non importa dove ci si trova, bisogna lasciare tutto e recarsi al rifugio più vicino. Questo è ciò che dovrebbe accadere in teoria. Ma la pratica è ben diversa. Trovandomi in Ucraina, ciò che mi ha colpito di più è stata l’indifferenza degli abitanti di Kyjiv agli allarmi aerei: mentre noi visitatori, insieme a pochi altri timorosi, ci affrettavamo verso i rifugi, la maggior parte delle persone continuava la propria vita come nulla fosse, ignorando il suono delle sirene. Come è possibile?

Ogni cittadino ucraino ha installato sul proprio telefono l’app “Alert!” del governo ucraino. Nell’app si seleziona in quale regione, in quale oblast, dell’Ucraina ci si trova. Kyjiv è l’unica città ad avere un’unica sezione apposita. È possibile visionare anche una mappa dell’Ucraina, in cui le zone sono colorate di diverse intensità di rosso, in base al rischio che si corre in quel momento. L’est e la Crimea sono sempre tinte di un rosso scuro e tetro. 

In caso di rischio di attacco aereo, l’app emetterà un suono assordante fino al termine del pericolo, invitando i cittadini a dirigersi verso il rifugio più vicino. La fine dell’allarme ha un tocco particolarmente «simpatico»: la voce dell’attore Mark Hamill, il celebre Luke Skywalker di Star Wars, annuncerà: «Attenzione. L’allarme è finito. Che la forza sia con te!».

L’app non si limita a dare l’allarme, ma fornisce anche informazioni utili. Cliccando su una determinata regione, è possibile vedere lo storico degli allarmi. Ad esempio per l’oblast di Poltava, a est dell’Ucraina, nella giornata del 23 settembre l’allarme è suonato sei volte, per un totale di quasi quattordici ore. Vi è poi una sezione dedicata a link come i «Bot salva vita», che segnalano le attività nemiche, le situazioni di emergenza e aiutano a trovare il rifugio più vicino. Sempre dall’app si può accedere a link per trovare abitazioni per i rifugiati o per chiedere assistenza medica, sia fisica, sia psicologica. 

Perché, allora, quando suona l’allarme in molti non scendono nei rifugi? Questo accade perché molti allarmi sono solo precauzionali, e gli ucraini non si affidano principalmente all’app per informarsi, ma ai gruppi Telegram.

Ce ne sono diversi per ogni regione e città dell’Ucraina e contano centinaia di migliaia di iscritti. Uno di questo è “єРадар | Повітряна тривога | Ракетна небезпека”, letteralmente “isRadar | Allarme aereo | Pericolo missilistico”, con centonovantasettemila iscritti. 

Le informazioni fornite nei gruppi Telegram sono molto più precise rispetto a quelle dell’app. Gli utenti vengono avvisati quando gli aerei decollano dalle basi russe, a che ora potrebbe suonare l’allarme e su quale area della regione si sta dirigendo l’attacco. Viene anche specificato il tipo di minaccia in arrivo: droni, missili cruise o missili balistici, o magari tutti e tre insieme. Comprendere la natura dell’attacco è fondamentale: «Per qualche drone non mi alzo certo dal letto», commenta un utente su Telegram. 

Il punto è questo: non si può interrompere ogni notte il proprio sonno, così come non si può fermare ogni giorno il lavoro o la vita sociale, per allarmi che, nella maggior parte dei casi, sono solo precauzionali e non riflettono la reale gravità del rischio. A lungo andare, si rischierebbe di soccombere all’ansia e alla privazione del sonno, due strumenti di pressione psicologica che la Russia utilizza contro gli ucraini. Cosa fare, dunque, quando un allarme squarcia la notte? Si devono svegliare i bambini che il giorno dopo devono andare a scuola? Non si può vivere così per due anni e mezzo, e spesso si preferisce rischiare.

«Sono scesa nel rifugio due volte: il primo e il secondo giorno di guerra. Ma non si può vivere così. Devo lavorare, uscire, vedere i miei amici. Quando l’allarme è più serio, scendo; finora non l’ho fatto. Devo vivere, altrimenti impazzisco, anche se questo significa correre qualche rischio in più. Certo, non è per un drone che posso rinunciare a una notte di sonno. Se arriverà la mia ora, pazienza». Queste sono le parole di Oksana a Kyjiv, simili a quelle di tante altre persone ascoltate. Va detto che il suo «se arriverà la mia ora, pazienza» è seguito da una risata nervosa. Gli ucraini hanno sviluppato un certo humor nero negli ultimi anni; le battute sulla propria morte sono ormai all’ordine del giorno. È una delle cose che, se non si vive in guerra, è difficile comprendere: serve a non perdere la ragione.

Alla base di questi ragionamenti c’è la distanza della città dal fronte e una convinzione: la contraerea intercetta quasi tutto. Ma allora, quando si decide che il pericolo è reale e ci si deve rifugiare, dove si va?

Rifugio dellhotel Ukraine, foto di Giulio Albano

Città come Kyiv sono piene di strutture sotterranee. Sotto via Khreshchatyk, la strada principale, si estende una rete di negozi e gallerie commerciali, come il Globus, il centro commerciale del centro della città. Un altro rifugio molto utilizzato sono le stazioni della metropolitana, insieme alle cantine, profonde e presenti quasi sotto ogni palazzo. L’Hotel Ukraina, ex Hotel Mosca ai tempi dell’Unione sovietica, che si affaccia su piazza Indipendenza, ospita addirittura un rifugio antiatomico, con istruzioni su come usare una maschera antigas e preparare un kit di sopravvivenza, eredità della guerra fredda. Su Booking.com vengono evidenziate la profondità, le comodità e la presenza del wifi nei rifugi. Se bisogna rimanere sottoterra per qualche ora, meglio farlo con un minimo di comfort.

E chi non ha un rifugio vicino? La regola è allontanarsi dalle finestre, scendere ai piani più bassi del palazzo in cui ci si trova e avere almeno due pareti tra sé e l’esterno.

Così, una nazione cerca di mantenere un’apparente normalità. Non dimenticherò mai l’immagine, una sera in piazza Nezaležnosti, di una coppia abbracciata, persa negli occhi l’uno dell’altra, mentre in sottofondo risuonava l’ennesimo allarme aereo. E in quel momento, cosa fare? Continuare a scappare o restare abbracciati? Forse è proprio questo che significa essere ucraini oggi: vivere sospesi tra la paura e la speranza, imparando a trovare conforto anche nel suono costante del pericolo. Perché alla fine, nonostante tutto, la vita continua.

*Ha collaborato alla realizzazione del reportage Andrea Zazzera.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter