Il 16 settembre 2022 ha segnato un prima e un dopo nella storia recente dell’Iran. La morte di Mahsa Amini, giovane di Saqqez massacrata di botte in un furgone della Gasht-e Ershad, la polizia morale, è stata la miccia che ha fatto divampare un fuoco di proteste contro il regime teocratico in diverse parti del Paese. Prima in alcune piccole località delle province curde, poi nella capitale Teheran e in altre cento città. A distanza di due anni da quel delitto di Stato, milioni di iraniani in tutto il mondo continuano a far sentire la propria voce protestando contro gli ayatollah al potere. Una resistenza che si radica nel quotidiano, attraverso forme di disobbedienza civile.
Le proteste dell’autunno ’22 non sono state le prime da quando l’Iran è una Repubblica Islamica, cioè da quarantacinque anni. In più occasioni la popolazione di quello che fu l’antico impero persiano è insorta contro il governo per chiedere riforme di tipo economico o sociale. Sollevazioni che hanno riguardato istanze di alcune categorie di persone (insegnanti, pensionati) o minoranze etniche (curdi, azeri), e che sono state tempestivamente sedate dal regime. Come mai prima d’ora, però, il dissenso popolare ha coinvolto diversi attori nel Paese – dalle donne agli studenti, dagli operai agli sportivi – e ha avuto come bersaglio proprio l’istituzione teocratica della Repubblica Islamica e il “regime di apartheid di genere”.
Per capire meglio cosa si intenda con questa espressione è opportuno fare riferimento all’arte, e in particolare al cinema. La finzione, d’altronde, ci permette di osservare fenomeni sociali che possono sfuggire nella confusione degli eventi reali, specie se sono eventi che accadono a oltre cinquemila chilometri di distanza da noi. Il film “Kafka a Teheran” (2023) dei registi Ali Asgari e Alireza Khatami può aiutare in questo senso. Mettendo in scena nove frammenti di vita quotidiana nella capitale iraniana, la pellicola svela i paradossi di un sistema che controlla e sanziona ogni aspetto dell’esistenza di cittadini e cittadine.
Nel quarto di questi episodi la protagonista è una donna di nome Sadaf. La scena è ambientata in un ufficio della polizia stradale di Teheran, e si sviluppa in un dialogo di una decina di minuti tra la donna e una funzionaria pubblica. Sadaf è accusata di non aver indossato correttamente l’hijab – come prescritto dalle leggi iraniane – mentre era alla guida della sua auto. Lo proverebbero le immagini di una telecamera di sicurezza.
Lei nega imperterrita, e a un certo punto domanda: «Presumendo per un istante che io non mi sia coperta i capelli…Ero in macchina: non è uno spazio privato?». «Chi le ha detto che è uno spazio privato?», risponde la funzionaria. «Non lo è?». «No, le macchine hanno i finestrini, ci si può vedere dentro». «Anche casa mia ha le finestre, ci si può vedere dentro. Non è privata neanche quella?». «Se si può vedere all’interno, certo che non è uno spazio privato». «Come?! È casa mia!». «Lei non può fare quello che vuole a casa sua, non è uno spazio privato!». «E cosa c’è di privato in questa nazione?». «Non voglio discutere di politica con lei, la politica non mi riguarda. Io qui sto facendo solo il mio lavoro».
Una risposta che ben traduce l’asfissia a cui sono costrette le donne come Sadaf in un regime fondato sul Corano. Una condizione di apartheid di genere, dunque, di cui milioni di iraniane sono vittime da quasi mezzo secolo. Private degli stessi diritti degli uomini, sono state relegate a ruoli socialmente inferiori e politicamente ininfluenti.
Il 16 settembre 2022 ha però rappresentato una spartiacque nella coscienza di parecchi iraniani. La morte di Mahsa Amini ha generato un’immediata ondata di proteste che ha coinvolto larghi strati della popolazione. Al grido di Zan, Zendegi, Azadi (“Donna, Vita, Libertà”) – da cui poi si è originato un movimento omonimo contrario alla struttura conservatrice-islamica del regime – milioni di uomini e donne hanno occupato strade e piazze di diversi centri del Paese per dire basta alla teocrazia liberticida.
Sul numero di Linkiesta Magazine pubblicato in occasione dello scoppio delle proteste in Iran, Mariano Giustino scriveva: «Ora le donne di tutte le province dell’Iran si tolgono l’hijab e gli dànno fuoco, lo fanno con rabbia strappando dagli edifici pubblici le foto di Khamenei, di Khomeini e di Qassam Soleimani, il comandante della Forza Quds ucciso dagli americani. Lo stesso fanno le giovani adolescenti nei licei che si fanno fotografare mostrando il dito medio accanto ai ritratti dei mullah appesi alle pareti della loro classe. Sfidano apertamente la regola dell’hijab e pubblicano in rete le foto e i video delle loro performance per incoraggiare tutte le altre donne alla ribellione».
Di fronte al dilagare delle proteste, la reazione del regime è stata violenta. Come riportato da Iran International, un canale televisivo iraniano con sede nel Regno Unito, nel giro quattro mesi «il governo è riuscito a soffocare il movimento arrestando fino a ventiduemila individui, usando pallini da caccia contro i manifestanti accecandone molti, uccidendo anche bambini e adolescenti». Il bilancio dei morti durante il periodo delle manifestazioni è di circa cinquecentocinquanta persone, mentre coloro che sono stati arrestati hanno testimoniato di abusi, torture e stupri nelle carceri e nei centri di detenzione. Sette di loro sono stati condannati a morte per impiccagione.
Secondo Luigi Toninelli, Assistente di ricerca dell’Ispi per l’area Medio Oriente e Nord Africa, «la repressione del regime non è stato l’unico fattore che ha smorzato l’intensità delle proteste in Iran. Decisivo è stato il fatto che il movimento fosse acefalo, che non presentasse una leadership: ciò ha reso più facile il compito per il governo». Donna, Vita, Libertà, infatti, sorge spontaneamente dal basso, da un diffuso sentimento di insofferenza popolare nei confronti del governo islamista.
A ciò si aggiunge il fatto che, secondo l’antropologa italo-iraniana Sara Hejazi, «generalmente gli avanzamenti delle istanze della società civile avvengono in contesti di benessere economico. L’Iran sta attraversando una grave crisi a livello economico, con una forte polarizzazione tra classi sociali sulla base del reddito. Un Paese in cui un terzo della popolazione vive sotto la soglia della povertà non ha certo come priorità la conquista di istanze civili. D’altronde, uno deve pensare a come mangiare».
Nei mesi successivi alle proteste del ’22, il regime ha continuato a pattugliare le strade e a vigilare sugli atteggiamenti di donne e dissidenti. La pressione esercitata dalla leadership religiosa nei confronti della popolazione è stata di intensità variabile, a seconda del contesto politico e del periodo dell’anno. Nella primavera del 2023, ad esempio, aveva rimosso la polizia morale dalle strade, per poi reintrodurla nel luglio successivo.
Nell’aprile di quest’anno, invece, c’è stata una decisa stretta del governo sulle regole morali. Come riportato da Amnesty International, con la cosiddetta “Operazione Nour” (che significa “luce” in farsi), «le forze di sicurezza hanno intensificato l’applicazione del velo obbligatorio negli spazi pubblici sottoponendo donne e ragazze a sorveglianza costante, percosse, violenze sessuali, scosse elettriche, arresti, detenzioni arbitrarie e altre molestie».
A seguito di questa iniziativa del governo, il ventuno aprile l’attivista iraniana Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023 e detenuta nel carcere di Evin, ha pubblicato sul suo profilo Instagram questo messaggio: «Oggi la teocrazia autoritaria ha lanciato una vera e propria guerra contro tutte le donne in tutte le strade del paese, da una posizione non di potere ma di disperazione». Mohammadi, uno dei volti cardine del movimento Donna, Vita, Libertà, è stata condannata a trentun anni di prigione per il suo impegno contro la pena di morte, l’uso della tortura e della violenza sui detenuti politici, in particolare le donne, e a favore la difesa dei diritti umani.
Come testimoniato da diversi media indipendenti, la repressione del regime perdura tutt’oggi. A partire dai primi giorni di settembre, infatti, a pochi giorni dall’anniversario della morte di Mahsa Amini, le forze di sicurezza hanno effettuato numerosi arresti all’indirizzo delle famiglie dei manifestanti uccisi due anni fa. Come riportato da Iran International, nella prima settimana del mese almeno diciassette cittadini della provincia del Kurdistan sono stati condotti in carcere. Una simile operazione era stata realizzata nello stesso periodo l’anno scorso, quando c’erano stati almeno venti arresti nella provincia di Kohgiluyeh e Boyer-Ahmad, nel sud-ovest dell’Iran.
Oltre a perpetrare questo genere di attività, la Repubblica Islamica si muove anche a livello legislativo. Da alcuni mesi in Parlamento è in discussione un progetto di legge noto come “Hijab e Castità” che mira a legalizzare l’aumento degli attacchi delle autorità contro le donne che sfidano il velo obbligatorio. In particolare, il testo prevede multe fra i centoventi e i ventimila dollari per le donne che non indossano il velo, e dieci anni di carcere per chi non rispetta questa regola «in forma organizzata e incoraggi altri a seguirne l’esempio».
In questo contesto di coercizione estrema, la libertà di donne e dissidenti è messa a dura prova. Negli ultimi due anni i manifestanti hanno fatto i conti con la persistenza del regime e con l’improbabilità di rovesciarlo tramite contestazioni come quelle che hanno seguito la morte di Mahsa Amini. Tuttavia, le speranze di una rivoluzione non sono scomparse.
Come spiega a Linkiesta Rayhane Tabrizi, attivista della dissidenza iraniana, «oggi resistere in Iran vuol dire compiere atti di disobbedienza civile, accettando le conseguenze che da questi possono derivare: ad esempio, perdere il lavoro, lasciare la famiglia, essere espulsi dall’università, perdere la vista, essere arrestati, torturati, stuprati. Ognuno compie la sua protesta pacifica: le donne, rifiutandosi di portare il velo nonostante l’aumento dei controlli del regime; gli uomini, sostenendo le donne nella loro lotta per l’emancipazione».
Ma è una resistenza che riguarda anche il modo in cui si esercita la propria professione: «i registi dissidenti, ad esempio, inseriscono nei loro film espressioni proibite e attrici non velate, oppure boicottano l’industria cinematografica che collabora con il regime».
Tabrizi era tra le organizzatrici della manifestazione in ricordo di Mahsa Amini, che ha avuto luogo sabato 14 settembre in Piazza San Babila, a Milano, con Linkiesta co-sponsor dell’evento. «Manifestazioni come questa servono a dimostrare al nemico che la fiamma della rivoluzione non è spenta, e che il popolo iraniano non si è tirato indietro, nonostante dolori e difficoltà», dice.
All’evento, oltre a varie associazioni che sostengono il movimento Donna, Vita, Libertà. hanno partecipato decine di iraniani della diaspora. Shaho, un modello originario di Saqqez, la città di Mahsa Amini, pensa che «il processo di una rivoluzione non è così semplice, può comportare anni. Non ci aspettiamo che la situazione cambi dall’oggi al domani. Sappiamo, però, che il futuro è dalla nostra parte, bisogna continuare a resistere».
Della stessa idea è Saba, una giovane attrice iraniana: «le proteste di questi anni sono servite a cambiare la mentalità di molte persone in Iran. So di diversi iraniani di fede musulmana che hanno dichiarato di non sostenere il regime della Repubblica Islamica. Pertanto, non penso affatto che le proteste siano state vane, anzi: sono state la scintilla che ha fatto divampare un fuoco».