Sono quasi pronto (Ponte alle Grazie) è il nuovo intenso romanzo di Giorgio Biferali. La storia di un uomo che diventa tale. Un imminente padre, figlio dei propri genitori, giovane professore, compagno, amante, amico, fratello. Un romanzo composto da una sequela di epifanie e da atomi di pensiero rivolti alle pieghe più semplici, ma non per questo meno rivelatrici, del qui e ora. «Il mondo, pensavo, si divide in due gruppi, quelli che quando hanno l’accendino in mano e c’è qualcuno che si offre di accendere la loro sigaretta dicono Grazie, ce l’ho, e poi mostrano la mano con l’accendino, e quelli che hanno l’accendino in mano e fanno finta di niente, e si lasciano accendere la sigaretta».
Il viaggio che il protagonista compie e che la voce narrante restituisce in un flusso di riflessioni innescate da azioni a volte semplicissime, come accendere una sigaretta, è quello della scoperta. Conoscersi e riconoscersi segna il passo verso un ulteriore scatto di vita, un figlio, e la conseguente necessità di far luce sulla propria esistenza partendo da ciò che ci appartiene nella sfuggevolezza, il passato, l’infanzia, una qualche verità sui propri genitori. Bianca, la compagna del protagonista, è convinta che lui debba scrivere un romanzo sugli ospedali. La psicologa gli suggerisce di approfittare della sofferenza, per scrivere. E in qualche modo la voce narrante ascolta sia l’una che l’altra: «So che un ospedale può somigliare a un romanzo, può somigliare alla vita, in cui succedono cose per cui vorresti morire e altre che ti fanno sentire immortale».
La rivelazione di cosa significhi attraversare le soglie che ogni vita predispone ha luogo, per eccellenza, nella letteratura. Biferali non si sottrae al suo compito e afferra l’esperienza, la propria esperienza, predisponendola sotto la luce della scrittura. L’autofiction si tinge di una posa che è deliziosamente svagata nella voce, tanto da ricordare in alcuni passi le opere di Natalia Ginzburg, a partire da Lessico famigliare, e folgorante nel contenuto. Professore alle prime armi, davanti ai suoi allievi, il protagonista sente che l’unica materia che avrebbe potuto insegnare è forse questa: «La memoria delle cose inutili, divertenti, magari, sì, ma inutili, almeno per il mondo in cui ero capitato». E di cose inutili, ma solo per un mondo sempre più preda di ciò che è esteriore, si nutrono i ricordi dell’Io narrante, immersi in un flusso vorticoso di canzoni e di quadri e passi di libri e spezzoni di film che aggiungono livelli di significato a quella fucina dell’immaginario che è in fondo la memoria.
Ogni momento d’essere, scoprirsi adulti, incontrare l’amore, aspettare un figlio, assistere impotenti al declino di una madre o di un padre, avviene in due diversi tempi: c’è il tempo della vita, che è effimero e inconsapevole, e quello della scrittura, che è espanso e particolareggiato. Se il racconto diegetico si snoda con il ritmo dell’uno, quello extradiegetico, da riferirsi non agli snodi narrativi ma alle scoperte che tali snodi portano con sé, si svolge in una sequenza di momenti senza durata.
L’eterno incespicare fra attimi di assoluta felicità e di prostrante dolore, la vita nella sua essenza, esiste materia più letteraria? Niente affatto. Biferali ne è cosciente e neanche ci prova a mettere ordine nella matassa, accoglie al contrario i fantasmi che ha invocato in una modulazione caotica, disinvolta e fluente in cui il presente diventa passato e il futuro presente, i ricordi si mescolano alle proiezioni, lì dove il qui si trasforma in prima e il domani in ora, e lo fa con una voce che tutto avvolge: le cose visibili e invisibili. I fatti e i pensieri, gli inizi e la fine, la gioia e il dolore, la vita e la morte, si accordano in uno spazio narrativo che procede con lo stesso incedere delle onde, tutto sta nell’imparare a sopravvivere anche dentro l’apnea, inventarsi un respiro anche se il flutto ti sommerge. «Tutto è possibile, quando sono qui», scrive Biferali prima di congedarsi. E qui è dove accade la letteratura.