La prima cosa che ti colpisce è la velocità con cui parla, e credo sia dovuto all’infanzia a Little Italy: un modo di conquistare subito il campo dell’interlocutore, potenzialmente ostile. Di travolgerlo con un approccio torrenziale, e nello stesso tempo ammaliarlo mettendosi a nudo. Conosco poche persone seducenti come Martin, ma è un talento che nasce dalla sincerità con cui ama condividere. Non si tratta mai di un modo di imporre la propria verità, al contrario: è la necessità di rivelarsi sino in fondo, per poi ascoltare con analoga passione.
Oggi racconta che in quei tempi di Elizabeth Street l’unica alternativa al diventare un criminale era farsi prete, e questi due poli opposti sono perennemente presenti nel suo cinema: da un lato l’eterna e misteriosa presenza del male, dall’altro la possibilità di redenzione. Per un periodo pensò seriamente di prendere i voti, e al termine di ogni funzione liturgica si chiedeva: «Perché il mondo non viene scosso dal sangue e dal corpo di Cristo?». Fu grazie a un sacerdote di nome Frank Principe che si rese conto che la sua vocazione religiosa poteva esprimersi anche attraverso il cinema, e in questi ultimi anni la presenza della riflessione sulla fede è diventata sempre più evidente.
Nel periodo in cui stava realizzando “Silence” ha avviato un intenso dialogo con Antonio Spadaro, all’epoca direttore di “Civiltà Cattolica”, con il quale ha scritto Dialoghi sulla fede, dove arriva ad affermare: «Ho cercato per molti anni di capire come Gesù viva nel mondo intorno a me, e come la sua presenza possa vivere in me ed essere espressa da me. Per molto tempo ho commesso l’errore di pensare che stavo esprimendo Gesù, quando in effetti stavo facendo un gran pasticcio: l’orgoglio, l’ego, essere il “grande regista”».
Mi ha sempre colpito come molti spettatori, e a volte anche alcuni critici, abbiano minimizzato un elemento così centrale nel suo cinema: penso al finale di quel capolavoro che è “Toro scatenato”, che termina con le parole del Vangelo di San Giovanni: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo», o le ultime immagini di “The Irishman”, nel quale il protagonista non trova la forza per confessarsi, ma chiede al sacerdote di lasciare aperta la porta.
Per Martin la vita è una Via Crucis: tragica quindi, ma con la promessa della resurrezione, e il suo cinema è una ricerca continua e tormentata della grazia nel territorio del diavolo, per citare Flannery O’Connor, autrice per lui fondamentale insieme a Shsaku Endú e Marilynne Robinson. Tuttavia è Fëdor Dostoevskij lo scrittore che riveste il ruolo più significativo nel suo percorso esistenziale e artistico, e quando lo invitai a partecipare al progetto Writers on Writers, nel quale artisti di ogni campo leggevano un brano di un libro amato, scelse “I fratelli Karamazov”. Poco tempo dopo ho avuto il privilegio di essere testimone di un incontro con Papa Francesco nel quale hanno parlato a lungo di “Memorie del sottosuolo”, prediletto da entrambi e base di partenza per quell’altro straordinario film che è “Taxi Driver”. Tornando in albergo al termine di quell’incontro abbiamo parlato del concetto di peccato e gli ho chiesto a bruciapelo se credesse in Dio. In un primo momento mi ha detto: «Non lo so, ma sono cattolico», poi però ha voluto elaborare il suo ragionamento: «Credo che Dio esista. E proprio perché sono cattolico so che ci ama: non può essere un torturatore».
Questo magnifico artista che compirà ottantadue anni a novembre è cambiato solo in apparenza rispetto all’uomo che ha conquistato il mondo con il suo cinema. Oggi, per esempio, è attento all’eleganza, e basta vedere le foto dell’epoca di New York, New York per scoprire una persona del tutto indifferente al proprio aspetto. Non si tratta di semplice imborghesimento, ma la scelta di sottolineare anche con la forma un percorso nel quale non sono mai scomparsi né i tormenti né le speranze: Martin sa bene che ogni esistenza è segnata da slanci e cadute, ma oggi rifiuta un finale senza redenzione, e non scherza quando racconta che Hollywood lo ha aiutato moltissimo con i suoi happy endings.
Come Travis Bickle in “Taxi Driver” o Jake LaMotta in “Toro scatenato”, è un uomo dalle passioni vulcaniche, che a differenza dei suoi eroi è riuscito a trasformare un’energia rabbiosa in potenza espressiva e arte pura. Molto si deve anche a un talento inimitabile, ma tutti i suoi protagonisti tormentati ne rispecchiano i travagli, e questo è valido sia per gli eroi fragili di “Silence” che per l’umanissimo Gesù dell’Ultima tentazione di Cristo.
A proposito di “Toro scatenato”, mi disse con sincero turbamento che era la storia di «un uomo che aveva solo un talento: quello di far male. Ciò lo porta alla gloria dentro il ring, ma alla disgrazia appena esce dal quadrato». Il suo genio registico gli ha consentito di esprimere questo concetto già dai titoli di testa, dove Robert De Niro si riscalda al rallentatore con il sottofondo della Cavalleria rusticana. Intorno a lui il mondo appare ostile, e con un colpo di genio Martin ha utilizzato il rumore di colpi di pistola per l’esplosione minacciosa dei flash. Persino sul ring Jake LaMotta è aggredito dal mondo, e non c’è nulla che riesca ad alleviare il tormento per l’esistenza del male e l’incontrollabilità delle passioni.
Sarebbe lunghissima la lista di straordinari momenti cinematografici nei quali Martin esalta il proprio magistero registico: basterebbe pensare al piano sequenza di “Quei bravi ragazzi” nel quale Ray Liotta si fa bello con la donna che vuole conquistare entrando dal retro di un night club, la telefonata di Travis Bickle in “Taxi Driver” nel quale la macchina da presa lo abbandona pudicamente per un attimo attendendolo in un desolato corridoio dove lui inevitabilmente andrà a camminare. O quella scena brevissima della “Età dell’innocenza” in cui si vedono decine di uomini con una mano sui rispettivi cappelli per evitare che volino in un giorno ventoso: poche immagini hanno immortalato in maniera così indelebile un mondo supponente, fragile e conformista.
Non conosco persona al mondo che abbia eguale competenza di cinema, e nessuno che ne sappia discutere in maniera così coinvolgente. Una volta lo invitai alla Festa del Cinema a parlare dei grandi film italiani: ne selezionò dieci, regalando al pubblico una serata indimenticabile. Spiegò che per preparare “Quei bravi ragazzi” aveva studiato “Divorzio all’italiana”, e di fronte al silenzio incredulo del pubblico mi chiarì tutte le assonanze tra i due film, a cominciare dall’uso della voce over, il montaggio rapidissimo e perfino l’arco morale del protagonista.
Quando fu il turno di Salvatore Giuliano fece proiettare la sequenza nella quale la madre del bandito piange sul cadavere del figlio. «Quello che rende questa sequenza straordinaria», provai a dire, «è che Francesco Rosi ci mostra una madre, mettendo in secondo piano chi era il figlio». Martin mi corresse dicendo semplicemente: “Non mostra una madre, ma la Madre.” Nel cinema sa vedere cose che altri non vedono, e la scelta estetica non prescinde mai da quella etica, anzi, l’elemento formale è un modo per riflettere su quello morale. Questo non lo frena dal prendere posizioni scomode: è stato tra i pochi a denunciare il rischio dello strapotere dei canali in streaming e della sovrabbondanza dei film tratti degli universi Marvel e DC. E non ha avuto paura di difendere Woody Allen di fronte al tentativo di cancel culture nei confronti dei suoi film: nel corso di un incontro di pochi mesi fa alla New York Historical Society, definì Manhattan un “capolavoro” e Allen il regista che più di ogni altro si identifica con New York.
Ha un profondo rispetto del pubblico al punto da considerare non riusciti i suoi film che non hanno avuto successo al botteghino. «Qualcosa non funziona», sostiene, «e la responsabilità è del regista, non dello spettatore». Fin quando non ha raggiunto la maturità, conosceva in profondità soltanto il cinema e il rock, ma da allora si è costruito con umiltà una cultura letteraria e storica, e alcune scelte di questi anni nascono da queste scoperte, come il recente “Killers of the Flower Moon”, sul massacro degli indiani Osage, parallelo alla nascita dell’Fbi.
È un uomo ansioso, a volte umorale, ma estremamente generoso: l’ho visto impegnarsi in prima persona per aiutare esordienti e colleghi in difficoltà, e chiunque abbia a cuore il cinema deve essergli riconoscente per il lavoro impagabile che svolge per il restauro dei film. Vive come se fosse un dolore personale il fatto che le pellicole si deteriorino, e questa passione è evidente anche nei poster che arredano la bella casa dell’Upper East Side: sono poche le opere d’arte rispetto ai manifesti, in cui compaiono i film di Hitchcock, infinite versioni della Grande illusione e, soprattutto, i classici italiani.
La generosità diventa dedizione assoluta nei confronti della moglie Helen, una raffinata donna del New England discendente di Edith Wharton. È lui a ricordare la parentela, con un briciolo di vanità, ma ciò che colpisce, a vederli insieme, è come Martin l’assista da quando la salute di Helen si è profondamente deteriorata. C’è qualcosa di molto commovente nella manifestazione di questo amore, sbocciato in età matura, e si intuisce che l’atteggiamento di tenerezza e dedizione che Martin mostra oggi per proteggerne il fisico è lo stesso che ha avuto in passato Helen nei confronti del suo spirito.
Parla raramente delle prime quattro mogli, ma è rimasto legato a Isabella Rossellini, e stravede per le figlie Catherine, Domenica e Francesca, che hanno seguito le orme paterne. Una volta ipotizzò scherzosamente di tornare a insegnare alla New York University, dove ha lasciato un ricordo leggendario, ma per il momento si limita a proiettare almeno un film ogni weekend nel suo ufficio di produzione, ascoltando le reazioni delle figlie: la scelta di realizzare Hugo Cabret nasce proprio da un suggerimento di Francesca.
L’attaccamento alla terra d’origine ha qualcosa di viscerale: la sua casa di produzione si è chiamata per anni Cappa, cognome della madre, e ora è diventata Sikelia, nome greco della Sicilia. Una volta mi ha raccontato che quando andò a Salina a trovare Paolo e Vittorio Taviani si commosse profondamente per le chiacchiere degli isolani che sentì nel dormiveglia: «Mi sembrava di essere a Elizabeth Street».
Considerava i Taviani maestri e fratelli e mi ha raccontato che è anche grazie a loro se ha imparato che è importante come si realizza un film, ma ancora più importante perché. L’amore per il cinema italiano continua anche con le nuove generazioni: si è speso in prima persona per Matteo Garrone e Alice Rohrwacher, ma il rapporto più intimo lo ha con Paolo Sorrentino, del quale ammira profondamente il grandissimo talento naturale. L’amicizia si è poi cementata anche grazie alla prelibata cucina di Daniela, moglie di Paolo: Martin ama mangiare bene, e ama ancor più il rito meridionale della tavola. Antepone l’amicizia a ogni altro valore: quando non si occupa di cinema è felice di uscire con pochi amici, a cominciare da Robert De Niro, Jay Cocks e in passato Elia Kazan, a cui ha dedicato uno splendido documentario.
C’è stato un momento, alla fine degli anni settanta, in cui eccessi di ogni tipo ne hanno messo a repentaglio la salute, già provata da una grave forma d’asma. Fu proprio De Niro a salvarlo da dipendenze pericolose, trascinandolo a realizzare “Toro scatenato”. Martin evita di parlare di Provvidenza, ma quando glielo dici sorride.
Da “Incontri ravvicinati”, di Antonio Monda (La Nave di Teseo), 672 pagine, 24,70 euro