Perché concentrarsi su qualcosa di effimero? Qualcosa a cui non diamo peso e che definiamo in senso quasi negativo con questo aggettivo? Il lavoro sugli ephemera di Marco Pecorari parte dalla sua pubblicazione di ricerca Fashion Remains. Rethinking Ephemera in the Archive (Bloomsbury, 2021) per approdare in mostra al Nasjonal Museet di Oslo dal 19 ottobre al 23 marzo 2025.
Tutti i prodotti laterali alla produzione di una collezione divengono il fulcro dello studio, capace di assegnare a questi un ruolo significativo all’interno del contesto culturale. Il lavoro, evidenzia Pecorari, è un pretesto per contrastare la pubblica opinione sul giudizio rispetto al settore moda, rivalutando i materiali complementari agli abiti: documenti, ricevute, pass, scatti, magazine, inviti e cadeaux.
Come nasce il tuo lavoro sugli ephemera?
Il punto di partenza è il mio percorso di dottorato, durante il quale ho analizzato questa categoria di materiali. Guardavo a questi come a una forma di metafora della maniera in cui la moda capitalizza sull’effimero, ma anche con una visione altra rispetto alla categorizzazione effimera dell’industria. Diversi studi filosofici, da Walter Benjamin a Baudelaire, si concentrano sul teorizzare questo aspetto della moda, con attenzione all’abito e alla maniera in cui ciclicamente la moda ha necessità di rinnovarsi, rendendo intrinseco il concetto di effimero. Sono partito da tre categorie di ephemera: gli oggetti di comunicazione, inviti, carte di auguri, comunicati stampa, quelli legati all’attività commerciale, fatture, ricevute, e quei materiali relativi al processo del design, moodboard, cartelle per i prototipi, che potessero documentare il processo a livello industriale e creativo. Dal libro partiva questa osservazione della moda come industria che va oltre il concetto di abito e partecipa al discorso della cultura visuale contemporanea. Questi oggetti diventano dei paratesti dell’abito soprattutto per alcuni designer inseriti nella ricerca e definiti concettuali come Yohji Yamamoto, Maison Margiela, Comme des Garçons, Dries Van Noten.
Come si è evoluta la tua ricerca attraverso la mostra Ephemeral Matters. Into the Fashion Archive?
Gli aspetti fondamentali sono: quello filosofico del vedere questi oggetti come metafore dell’effimero e della maniera in cui la moda capitalizza su questo e quello essenziale per dimostrare come possano essere oggetti di studio più declarativi dell’abito. Questi materiali spesso si muovono comunque nell’ambito di riferimento, tra giornalisti, buyer, clienti, mentre un ephemera classico non circola solo in un campo riservato. Già dal Novecento in Francia, per esempio, la società Le Vieux Papier, si occupava di studiare piccoli documenti appartenenti al quotidiano. Il mio obiettivo era studiare quegli oggetti collezionati in maniera sporadica e mai catalogati o inventariati nei musei principali. Autorialità, tempo e materialità sono le tre variabili attraverso cui sono stati studiati a livello accademico, da questa speculazione teorica nasce la mostra con un focus sulla tipologia di articolo e sulle differenti gamme di collezioni e pratiche.
Visivamente come hai reso fruibile all’interno del museo questa idea?
«Per l’impostazione scenografica della mostra ho scelto di lavorare sull’estetica dell’archivio come una forma di provocazione, perché questi oggetti non ne fanno parte, ma anche per valorizzare questa tipologia di materia agli occhi del visitatore. Nella sala abbiamo creato delle griglie in metallo e abbiamo inserito ventisette armadietti, ognuno con cinque cassetti. L’idea è quella di studiare l’esperienza di chi osserva nell’ottica di scoperta degli oggetti, incoraggiando l’interattività rispetto a questi.
Qual è il primo approccio del visitatore alla mostra?
La sezione introduttiva della mostra delinea una traiettoria del termine effimero, dalle origini latine che lo associavano a una febbre della durata di un giorno alla definizione di ephemeroptera, famiglia di insetti dalla vita brevissima. E poi ancora l’associazione alla Vanitas, corrente artistica che rappresenta attraverso elementi di natura morta la caducità della vita. La mostra parte da un quadro di Pieter Claesz riattivato e attualizzato da Rino Tagliafierro. A fianco a questo quadro ci sono elementi contemporanei che riprendono la stessa simbologia: la lettera di Balenciaga, i fiori secchi di Dries Van Noten, ciò concorre a creare una simbologia dell’effimero evidenziando l’evoluzione dei vanitas del giorno d’oggi. Da questa nozione si passa a quella attuale di oggetti privi di valore, usa e getta.
Quale percorso hai delineato per l’osservatore?
Seguono a quella già citata cinque sezioni, ognuna legata a una collezione. La prima è Diktats, concentrata sugli ephemera tra fine diciannovesimo e inizio ventesimo secolo, registra un’esplosione del loro utilizzo dovuta all’organizzazione e alla presentazione dell’industria moda. In questa collezione troviamo Paul Poiret con elementi relativi al licensing, rappresentazioni della realizzazione tipografica di questi materiali, poi inviti, segnalibri. La seconda sezione si relaziona a questa perché mostra come dei privati, come Diktats, arrivino a conservare oggetti effimeri che i musei pubblici non hanno. Palais Galliera, infatti, possiede solo una parte dei pezzi relativi a Poiret. Ciò permette di mostrare le contraddizioni all’interno di un museo pubblico, dove questi ephemera sono presenti nella collezione e inventariati, avendo però pochissimo valore storico ed economico. La terza zona è dedicata alla collezione International Fashion Library, basata su una donazione di oltre cinquemila pezzi di materiali di comunicazione del ready-to-wear dal 1975 a oggi. Questo ente si focalizza sull’apertura al pubblico di dinamiche relative ai network creativi, inquadrando il lavoro di fotografi, graphic designer, art director. Queste figure tendono infatti a lasciare tracce definite nei brand a cui si approcciano, esempio che sarà in mostra è la donazione del duo creativo M/M Paris, collaboratore per marchi come Yamamoto o Balenciaga. Questa sezione termina con una parte relativa ai format utilizzati nella creazione di questi oggetti, spesso ironicamente ispirati alla quotidianità: troviamo riferimenti a giornali o a guide turistiche. Manifesti o zine sono un altro tipo di riferimento di stampo politico utilizzato come modello dai designer e, per questo, la quarta sezione si focalizza su un qualcosa diverso dalla moda. Queer Zine Archive Project mostra come specialmente negli anni Novanta esista una controcultura all’interno dell’industria, evidenziata nel lavoro di Simons, Westwood e altri. Questi brand hanno commercializzato elementi che provengono da culture di resistenza come la collezione del collettivo. Il legame con l’industria della moda si percepisce nella creazione di un discorso mediatico alternativo e nella riflessione sull’abito e sull’affermazione identitaria derivante da questo. L’ultima sezione considera la selezione di Rare Books Paris, esponendo un archivio personale del proprietario Gregory Brooks, ex designer per Margiela. Qui si evidenziano una natura industriale della ricerca per una collezione, dallo studio, allo styling e al fitting, insieme alla connessione con una storia personale. Tutti questi oggetti sono diventati effimeri perché qualcuno li ha collezionati e queste persone sono sempre giornalisti, designer, o amatori della moda. L’individuo permette la conservazione di questi oggetti.
Qual è il pezzo che ti ha colpito nella ricerca fisica degli ephemera?
In particolare sono due e sono legati al racconto delle storie di produzione di questi oggetti. Uno nella collezione Diktats è un disegno che riguarda il percorso di creazione di un logo per una casa di moda: ci sono gli schizzi, poi lo stampino, il susseguirsi dei colori e il logo finale. L’altro si trova nella collezione di International Library: tra una serie di documenti donati da un importante direttore di comunicazione ho trovato dei suoi appunti sul come redigere un invito insieme al risultato finale cartaceo. Questo permette di scoprire professioni della moda spesso estranee al pubblico generalista, magari anche in via di estinzione come quella delle tipografie, ma essenziali sin dal principio nella creazione del discorso culturale attorno all’industria.