Correva l’anno 1967 e a Milano apriva un nuovo negozio che diventò subito uno spazio speciale, qualcosa di non paragonabile allo shopping tradizionale. Il 31 maggio, giorno dell’inaugurazione del Fiorucci store, quella festa memorabile – che dalla galleria Passarella debordò su piazza San Babila – travolse la città con un’onda che arrivava dalla Londra elettrica, dove moda, musica, design e stile si mescolavano con l’energia dirompente di un terremoto.
Disegnato dall’artista Amalia Del Ponte, disposto su tre piani, interamente laccato in bianco e blu, e con una vetrina spaziale: il negozio aprì le porte a un mondo giovanile che non aspettava altro. Le premesse c’erano tutte, a partire dal braccialetto in regalo all’inaugurazione, al Pill Plane Gadget per «la corretta assunzione della pillola anticoncezionale», alle shopping bag che si trasformavano in cuscini.
Nella mostra che la Triennale di Milano dedica a Elio Fiorucci, i colori, gli oggetti e le provocazioni offrono una ricostruzione fedele delle diverse tappe della sua impresa, una vera e propria rivoluzione pacifica dello stile. Ed è la voce registrata dello stilista a guidarci attraverso i vari capitoli di questa storia. «Ho usato per primo certi colori, forse con una certa incoscienza, quando le scarpe erano per lo più marroni, e c’era quest’aria in giro triste e grigia».
Già nel negozio di pantofole del padre, rimasto miracolosamente illeso dopo i bombardamenti sulla città, il giovane Elio medita di lasciare un segno luminoso in quella nebbia incombente. Ci vuole lo shock del suo primo viaggio a Londra nel 1965 per corroborare il motore creativo, prima semplicemente copiando quello che succedeva nella capitale swinging, immortalata da una celebre copertina del “Time”, e poi attraverso le energie dei vari collaboratori scelti nelle migliori fucine del giovane e già promettente design milanese, la creazione di quella che sarà «l’esperienza Fiorucci» dei suoi vari store, non solo a Milano, ma anche a New York, Los Angeles, Chicago. Senza dimenticare ovviamente Londra, con i suoi tre negozi.
A metà degli anni Sessanta, è da Biba, lo store di Barbara Hulanicki, che si radunano ragazzi e ragazze per vestirsi secondo la moda del momento: camicie colorate, minigonne, stivaletti, oggettistica e trucchi. È qui, dove i Beatles improvvisarono un concerto, che Fiorucci osserva e – non ne fa mistero – saccheggia liberamente le tendenze. «Raccattavo tutto quello che era interessante di Biba, o del Flea Market, riempivo dei valigioni enormi e venivo a Milano, per anni il negozio veniva rifornito solo in questo modo, non c’era produzione interna, poi dal 1971 abbiamo cominciato a mettere in piedi la produzione».
Il negozio, o meglio il concept store di San Babila assiste a tutte le trasformazioni dei vari anni Settanta e Ottanta, in cui decine di giovani stilisti e designer si impegnano a creare accessori e capi targati Fiorucci: i trench, gli impermeabili in plastica, gli ombrelli, le tute di carta e tutto l’universo degli stickers, oltre agli inconfondibili e onnipresenti angioletti vittoriani, il biondo e il bruno, sorridenti dalle scatole di latta, sui quadernini, le lampade, affissi in negozio a pubblicizzare i jeans Fiorucci, «i migliori» perché studiati per fasciare per la prima volta le forme femminili.
Grazie alla sua posizione strategica, vicino alle case discografiche concentrate nei dintorni delle Messaggerie Musicali, nel negozio passavano Gaber, Caterina Caselli, Mina. A quello di San Babila a metà anni Settanta si affianca l’altro negozio milanese in Via Torino, sempre disegnato da Franco Marabelli, che realizzerà tutti gli store internazionali.
Uno spazio teatrale, con una fontana che scendeva a cascata dal primo piano e delle palme. Qui, l’idea della moda come comunicazione di una linea estetica — un racconto che si estende dai vestiti ai dischi, ai libri, agli oggetti per la casa — diventa ancora più audace e pop, ampliandosi anche alla ristorazione, con l’introduzione degli hamburger nel menu.
«Il ristorante era aperto tutta la notte e vi venivano le compagnie teatrali. Al primo piano c’era uno spazio dedicato ai ragazzi, che potevano venire a vendere i loro abiti usati, in una ventina di chioschi che affittavamo loro», racconta Fiorucci in una vecchia intervista a Tempi. L’usato piaceva particolarmente ai ragazzi dei cortei studenteschi: «Finivano sempre per entrare nel negozio, perché li incuriosiva. Sentivano musiche sconosciute, le radio libere non c’erano ancora. Vedevano un tripudio di colori. Non capivano bene chi fossi: volevano a tutti i costi attribuirmi una coloritura politica, ma non ci riuscivano. C’erano tanti pezzi pop, ma allo stesso tempo io facevo delle campagne con i radicali».
Stefano Boeri, presidente della Triennale, che ha fortissimamente voluto la mostra, ricorda quegli anni: «Ero uno studente molto preso dal movimento studentesco, ma ero attratto dal negozio in Galleria Passarella, un’esplosione di colori in un mondo bianco e nero. Era quasi un universo parallelo, impregnato dell’estetica dei Sixties, della swinging London, ma anche degli hippies e delle pin up americane. Uno spazio caotico pieno di qualunque cosa, e una sospensione delle tensioni politiche che agitavano la città, lì tutto convergeva, conviveva, e si contaminava».
Il primo a trasformare le idee in loghi — come le pin-up, i nanetti, gli angeli — fu un generoso promotore di attività di ricerca sull’immagine, come la non banale Fiorucci Dixing, che tra il 1976 e il 1981 aveva il compito di mantenere alto il livello progettuale dell’impresa nelle sue varie estensioni, realizzando anche la Fiorucci Fanzine, un giornale distribuito gratuitamente. Fiorucci, più che investire in pubblicità diretta, come affissioni, pagine pubblicitarie o spot tv, optava per una comunicazione inserita nel design stesso dei prodotti, puntando sulle competenze e sulla capacità di anticipare le tendenze.
L’amore per i viaggi e per un’idea di altrove che potesse emergere nei suoi ambienti lo spinge a inventare dei ruoli — oggi si chiamano buyer — per alcuni dei suoi collaboratori, incoraggiandoli a viaggiare non solo per acquisire oggetti, ma per creare veri e propri album, diari e cartoline, con lo scopo di trasmettere esperienze e di «nutrire i negozi», come definiva questa attività l’amica di Biba, Barbara Hulanicki.
Sono tra le piccole meraviglie esposte nella mostra e raccontano un tratto che va ben oltre il professionale: abbracciano un’idea di stare al mondo, giocata con originalità, leggerezza e humor. Attività pervase dall’ironia e dal gusto per lo scompiglio, come nel caso della Giulietta con le ruote blu. È la storia bizzarra di una nuova versione dell’auto dell’Alfa Romeo che Fiorucci e l’amico Ettore Sottsass disegnarono nel 1978, riuscendo a convincere la casa produttrice e la Pirelli a scartare l’idea delle ruote nere «così brutte» per optare per quelle blu, destrutturando un’intera linea di produzione.
Unico, originale e radicale nello stile, ma mai marginale. Fiorucci non si confinava negli angoli della produzione culturale, ma incrociava volentieri i grandi marchi per diffondere le sue idee. Per questo il suo è anche un esempio avanzato di contaminazione tra cultura e impresa commerciale. L’estensione internazionale dei suoi concept store lo porta a vivere le varie fasi che segnano gli anni Settanta e Ottanta. A New York, dove nel suo negozio sulla Cinquantanovesima strada Andy Warhol presentava nel 1977 la sua rivista Interview e Truman Capote firmava copie dei suoi libri, Fiorucci festeggia il quindicesimo anniversario del suo negozio con una performance di Madonna nello studio 54 che vede la partecipazione di tutto il mondo pop. Da lì, concretizza quello che sarà un vero e proprio evento per Milano.
Tra il 9 e il 10 ottobre 1983, l’artista del momento, Keith Haring, trasformerà lo storico negozio di via Passarella in un’opera d’arte, seguito da un’altra festa memorabile e da vetrine che si trasformano in happening danzanti. Nel 2003, lo store chiude definitivamente, ma le vicissitudini dell’impresa Fiorucci – le difficoltà, le vendite, le crisi, le rinascite, i tracolli, persino il rischio di una pena detentiva per bancarotta – non intaccano l’eredità unica che quest’uomo ha lasciato. Prima di tutto a Milano, città che amava e valorizzava, e che lo premiò, oltre che con l’Ambrogino d’Oro del Comune, anche con il ruolo di Ambassador per l’Expo del 2015, poco prima di andarsene.
«Tutti abbiamo iniziato con lui», racconta Oliviero Toscani. Pubblicazioni e mostre ne hanno riconosciuto il valore nel tempo, ma quella della Triennale, a dieci anni dalla sua scomparsa, è forse il regalo più completo, anche perché vuole scongiurare il rischio di amnesia in una città in continua evoluzione, segnata da cambiamenti urbani e demografici. Una mostra dove scintilla il neon, simbolo di uno stile che lo ha sempre distinto: «Fiorucci does not discriminate against the unique and unusual».