Mismatch esistenzialeIl tifo sfegatato per Sinner, e la superiorità letteraria del calcio

Con l’ennesima gloriosa vittoria (alle Atp Finals), il tennista più forte di tutti non ha portato l’Italia sul tetto del mondo, ma solo sé stesso. E non si capisce perché ci si commuova tanto per un atleta che non rappresenta altri e gareggia per fatti suoi. Non è poi entusiasmante lo sviluppo narrativo di una partita di pallone della nostra squadra del cuore?

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E dunque si è conclusa in gloria la “grande bouffe” delle Atp Finals. Sinner ha vinto, stravinto, viva Sinner e viva questo nostro popolo di santi, poeti, navigatori e tennisti. E però adesso sia consentito a un agnostico incompetente di sussurrare sommessamente il proprio debol parere. Un paio di perplessità.

In primo luogo (è indubbiamente un problema mio, ma non riesco a venirne a capo) non mi capacito di come ci si possa accendere a tal segno per un atleta che gareggia, vince e guadagna fondamentalmente per sé stesso, per la sua propria gloria e il suo conto in banca. La stessa considerazione vale, naturalmente, per ogni sport individuale, anche se in questo caso ci sono premi in denaro incomparabilmente più ricchi che in altre discipline, per cui risulta (a me agnostico incompetente) un po’ bizzarro che ci si possa appassionare commuovere esaltare perché un bravo ragazzo guadagna tanto. Si può esserne contenti, certo, si può ammirarlo e parteggiare per lui, come anch’io senza esagerare ho fatto, e come quasi inevitabilmente avviene quando si assiste a una sfida tra due contendenti uno dei quali ha qualche cosa a che fare con noi – è nostro amico, nostro connazionale, nostro concittadino o semplicemente per qualche ragione ci sta simpatico. Però la vittoria e la vincita sono fatti suoi, noi non ne partecipiamo.

D’accordo, possiamo rallegrarci e pure essere orgogliosi che un italiano sia per la prima volta sul tetto del mondo in questo sport, ma non è in quanto italiano, rappresentante dell’Italia, che ha gareggiato e vinto, come invece è accaduto un anno fa (e ancora accadrà tra pochi giorni) quando era sceso campo in Coppa Davis: in quel caso non sono stati Sinner e compagni a vincere, ma l’Italia che, grazie a quei valorosi tennisti, ha vinto la finale contro l’Australia. Lo stesso ragionamento può valere per tutte quelle competizioni – Olimpiadi, mondiali delle varie discipline – in cui i singoli atleti partecipano a seguito di una selezione nazionale e gareggiano sotto i colori della loro bandiera, del che è un fedele riflesso la classifica del medagliere compilata per nazioni. Ma anche in questi casi la figura del singolo atleta tende a sovrapporsi al Paese che rappresenta – l’oro olimpico di Thomas Ceccon nei 100 dorso resterà indelebilmente legato al nome di Ceccon come se non più che a quello dell’Italia.

Diverso è il caso degli sport di squadra, tipicamente il calcio, dove – salvo poche eccezioni – anche i gesti individuali più memorabili sono sempre posposti rispetto alla squadra che se ne è giovata. Nella memoria di un tifoso juventino non c’è Del Piero che il 26 novembre 1996 a Tokyo ha vinto la Coppa Intercontinentale per la Juventus, ma la Juventus che quel giorno ha vinto la coppa grazie al gol di Del Piero. E infatti si fa il tifo per un certo calciatore, si compra la sua maglia e allo stadio si scandisce il suo nome, ma quando e se cambia squadra si smette di tifarlo (licenza diafasica: il verbo tifare è intransitivo).

A differenza del singolo atleta, sia esso calciatore o altro, che ha un’esistenza atletica limitata nel tempo, la squadra rappresenta un’entità superindividuale e atemporale che permane nel variare dei suoi interpreti, e che può sollecitare durevoli meccanismi di identificazione e sensi di appartenenza. Non solo durevoli, ma anche più intimamente, visceralmente vissuti. Tanto è vero che per Sinner ci si può divertire a fare cori e caroteggiare sugli spalti o davanti ai megaschermi, ma se Sinner avesse perso, il giorno dopo i Carota boys avrebbero ripreso la loro vita come sempre; mentre, quando perde la squadra (di calcio) del cuore, anche senza arrivare al parossismo di certi Paesi come il Brasile, dove a una sconfitta della nazionale non di rado sono seguiti dei suicidi, si può dormire male la notte e rimanere di cattivo umore per diversi giorni.

Ma il confronto con il calcio porta con sé una seconda osservazione. (Debol) parere mio, ovviamente. Oserò dirlo: in confronto al calcio, il tennis è infinitamente più noioso (ecco, l’ho detto). Il che non vuol dire che per chi lo pratica non possa essere molto più appassionante: il problema sta tutto in chi lo guarda. Anche una partita a scacchi – disciplina di cui periodicamente si propone l’ammissione alle Olimpiadi – per i campioni che la disputano è un gioco appassionante, forse il più appassionante di tutti oltreché il più crudele, ma per chi la segue in diretta nelle lunghe pause tra una mossa e l’altra è uno spettacolo mortalmente tedioso.

Anche un match di tennis può durare molte ore, ma il problema non è solo e non tanto questo: il vero problema è che il ventaglio delle sue azioni e delle sue situazioni è relativamente limitato e si ripete monotonamente dall’inizio alla fine nel batti e ribatti da un lato all’altro della rete, sia pure secondo le specifiche caratteristiche dei diversi giocatori. Si può dire che, nella gran parte dei casi, un incontro di tennis non ha una storia, o se ce l’ha è una storia ristretta a poche variabili (il tennista che sembra sull’orlo della resa, che concede un numero preoccupante di match-point ma poi resiste, rimonta e vince), non solo quando gioca Sinner che asfalta tutti senza nulla concedere all’incertezza.

Quel che contraddistingue una partita di calcio, o almeno dovrebbe contraddistinguerla e non sempre e neppure troppo spesso la contraddistingue in Italia, è precisamente il fatto di avere una storia, uno sviluppo narrativo intessuto di colpi di scena e di infinite variabili, azioni corali e improvvisazioni solistiche, finte geniali e gaffe clamorose, assedi asfissianti e strenue resistenze, lealtà e scorrettezze, tranelli, finzioni, schemi che saltano, fortuna, sfortuna e infortuni, barelle che vanno e vengono, maglie strappate, teste bendate, caviglie che parevano distrutte magicamente risanate, torti e favori, sviste arbitrali e revisioni del Var, risse, rigori, cambi decisivi, ribaltamenti di fronte, squadre che partono forte e poi finiscono alle corde, altre che subiscono per ottanta minuti ma poi trovano la forza per rimettersi in piedi, colpire e affondare: la partita come un romanzo.

È questa dimensione narrativa che non a caso ha ispirato la letteratura, segnatamente latinoamericana, e che dalle origini tardo-ottocentesche si è conservata, trasformandosi, e sopravvive nell’epoca del calcio business che muove i miliardi e attrae le mire dei fondi e degli emiri. Decretandone la superiorità, ancora per un po’, almeno, nonostante tutto il male che non a torto se ne può dire.

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