«Prima dell’indagine della procura, te le tiravano dietro», gongolava un amico una settimana fa mostrandomi fiero il suo acquisto da sedici euro: una bambola a forma di Chiara Ferragni. Io, che sottovaluto sempre l’economia dell’indignazione, non ho apprezzato l’investimento; finché ieri lo stesso amico mi ha mostrato le pagine eBay su cui, dopo l’annuncio delle indagini, la stessa bambola è arrivata a quattromilacinquecento euro.
Intanto, tra le lettere cui risponde Aldo Cazzullo nella sua rubrica sul Corriere si affacciava l’indignazione che potrebbe sostituire quella ferragna, nel nostro continuo bisogno di carne fresca cui fare la morale, e che però a me sembra già mangiata, già marcita, già alla millesima replica: lo sportivo tifato dagli italiani che non paga le tasse in Italia.
Stavolta è un tennista, l’ultima volta mi pare pure, ma la penultima forse era un motociclista. Sarà perché non seguo per niente lo sport – non guardo il tennis da quando mi piaceva Lendl, ho visto in tutta la vita due finali dei mondiali di calcio – ma mi sembra che, ogni volta che qualcuno vince qualcosa e la cittadinanza tutta corre a intestarsene la vittoria, poi venga fuori che è la cittadinanza d’un paese al quale quello sportivo non paga le tasse.
Ora, è chiaro che c’è un problema di fondo: c’è un’attività più imbecille che tifare? «Mi piace il bel gioco» è una frase fatta, inutilizzabile se non con fini comici, eppure dovrebbe essere sinonimo di sanità mentale: se il giocatore non è mio parente, che mi frega che vinca perché «è uno dei miei»? In che senso è dei miei? Gli unici a tifare dovrebbero essere i genitori che vanno a vedere le partite dei figli.
E invece, persino da prima di smettere di credere nelle religioni organizzate, la gente ha sempre avuto bisognissimo di sentirsi appartenente a qualche identità di gruppo, tu sei di quelli contenti se vincono i tizi con la maglia rossa, io se vincono quelli con la maglia blu. Ci cambia qualcosa? Se vincono i rossi ti fanno un bonifico? Se vincono i blu non si rompe la caldaia per tutto l’inverno? No, è che sono i miei. I miei che? Non si sa.
Nel caso del tennista del momento e dei suoi predecessori di residenza fiscale nel principato di Monaco, c’è l’aggravante del patriottismo, un valore così scemo che per trovarne uno che gli faccia concorrenza bisogna arrivare fino alla verginità. Teniamo per Tizio perché Tizio è della nostra nazione: un’idiozia che, se non sei americano e non piangi con la mano sul cuore quando senti l’inno, dovrebbe farti sghignazzare. E invece pare così normale che a Salvini ancora rinfacciano non so quale volta che a non so quale partita disse che avrebbe tifato contro l’Italia. Alto tradimento, poffarbacco.
Ora, è chiaro che Cazzullo ha ragione nella sua risposta, nella quale dice che teme d’inguaiarsi come gli accadde quando si espresse contro i videogiochi (dilettante: provi a dire qualcosa contro i fumetti, se vuole ritrovarsi le notifiche piene di gente che pretende il 41 bis per chi lede il suo diritto di leggere solo testi affiancati da disegnetti e tuttavia reputarsi intellettuale).
È chiaro che ci vorrebbe una legge come quella francese, che vieta di prendere la residenza nel principato di Monaco tenendo la cittadinanza francese (cioè: vieta il conto pieno e il fisco ubriaco), ma è altrettanto chiaro che noi quella legge non ce l’avremo mai.
Non solo perché i francesi hanno avuto la rivoluzione e noi al massimo quella sublime scena di “Vestivamo alla marinara” in cui Raimondo Lanza di Trabia va all’inseguimento della macchina con a bordo i Savoia e Badoglio, li raggiunge fermi a un passaggio a livello, chiede istruzioni per il generale rimasto in città, e quando la sbarra del passaggio a livello si rialza la macchina riparte e Badoglio urla dal finestrino: gli dica di fare quello che può, che si arrangi.
Soprattutto perché i francesi, lo dicevo l’altro giorno, hanno le mostre di Rothko e noi abbiamo le elemosine di beneficenza, perché anche per essere ricchi ci vuole uno straccio di cultura, anche per capire che le tasse fanno tessuto sociale, anche per non avere il mito della furbizia. L’altro giorno, qualcuno mi ha scritto che un po’ era vero: «Montezemolo non è Arnault, e Ferrero non è Pinault».
Poiché poche cose invidio più della capacità di buttar lì frasi memorabili, e poiché sono pur sempre italiana, ho pensato che mi sarei dovuta arrubbare subito la frase e rivenderla a Dior. Altro che Chimamanda e il suo «We should all be feminists», le magliette vanno stampate con la scritta «We should all be Arnault».
Ma, dicevo, non è perché non sappiamo pronunciare «inébranlablement» che gli sportivi che rappresentano la nostra nazione continueranno a non pagare le tasse alla nazione stessa, e noialtri continueremo a doverci pagare la tac privatamente – per un complesso di ragioni, non ultima delle quali il fatto che i ricchi italiani, appena possono, evitano non solo di finanziare grandi mostre, ma anche di pagare le tasse, e quindi la sanità pubblica non può reggere.
È perché siamo inébranlablement parcheggiatori in seconda fila e non Arnault: è perché ci piace così. È perché noi, al posto del tennista e del motociclista e del qualunque arricchito che al primo milione corre a spostare la residenza fiscale, faremmo come lui, certo.
Ma, soprattutto, è perché siamo ignoranti e questo si sa, ma anche stupidi, e questo non siamo disposti ad ammetterlo. Col mito della furbizia che abbiamo, figurarsi se abbiamo la lucidità di ammettere che sentirci vincenti per conto terzi solo perché ha vinto uno che come noi è cresciuto nella patria degli spaghetti al dente, uno che come noi ha frequentato le migliori elementari del mondo ed è rimasto convinto che «sé stesso» si scriva senza accento, uno che come noi pensa che gli altri siano dei parvenu e vuoi mettere le nostre rovine e i nostri millenni di storia, cosa ce ne facciamo dei mezzi pubblici puntuali, figurarsi se ammettiamo che tutto ciò fa di noi dei perfetti cretini.
Vogliamo dire «abbiamo vinto», perché ogni vittoria è una scarica di dopamina che quasi neanche indignarsi su Instagram, ogni vittoria ci fa dimenticare che viviamo in città lerce pur pagando sontuose tasse sulla spazzatura, e nessuna vittoria dev’essere inficiata dal pensiero che quello che ha vinto quella tassa lì, come le altre, mica la paga.
Siamo tutti scemi che si percepiscono furbi, ma solo pochi di noi hanno un talento sportivo. Agli altri non resta che quella gratuita manifestazione di scemenza che è il tifo, o quell’altra gratuita manifestazione di scemenza che è l’indignazione. In entrambi i casi, il fatturato non è il nostro. Né – per carità, sia mai – è nostra la responsabilità; noi, innocenti, seguiamo solo le indicazioni di Badoglio: facciamo quel che possiamo, ci arrangiamo.